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Il deserto diventerà un giardino (Is 32, 15): difficile trovare metafora più azzeccata per descrivere la sensazione di serenità, da tutti noi ricercata durante la nostra vita con ardore, eppure così difficilmente trovata. L’immagine del giardino, col rigoglio di piante e fiori, in cui si dilettano animali d’ogni tipo, che in esse trovano il proprio nutrimento, è in forte contrasto con quella dell’aridità del deserto, in cui la terra, piagata dall’arsura ed alla vana ricerca d’acqua, si trova incapace di offrire nutrimento anche agli animali più semplici. Questo desiderio di bellezza e serenità, nella nostra vita, spesso si va a scontrare con l’asprezza della realtà: nella vita di tutti i giorni, senz’andare a scomodare i drammi più profondi, la nostra routine è spesso danneggiata dagli imprevisti: l’auto che non parte, il treno che ritarda, la tubatura che perde, il temporale che danneggia il cancello elettrificato. Basta un’inezia, e tutti i nostri programmi vanno in malora. Il nostro vagheggiare il giardino si trasforma ben presto in arido deserto e trasformarlo anche solo in una steppa è impresa ardua ed impegnativa, che mette a dura prova le nostre fatiche fisiche e mentali.

“Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. (Rm 5,6-8)

Il perdono di Dio ci raggiunge e ci invita a ravvederci. Il suo amore precede la nostra iniziativa: la anticipa e la favorisce, come ben esplica la parabola del Padre Misericordioso. Egli non avrebbe mai potuto corrergli incontro, precedendone le mosse (e “rovinando” il film sulla richiesta di perdono che il figlio minore si era già creato nella testa), se non fosse stato già pronto ad accoglierlo, aspettando con ansia il suo ritorno, sbirciando dalla finestra ogni indizio sul possibile ritorno. Chissà quali angosce devono avere albergato, in quel cuore di Padre (“Tornerà? Capirà? Crederà di poter ricevere il perdono che il suo cuore anela?”). Quelle stesse che abitano il cuore di Dio, quando un Suo figlio si allontana e, magari dispera di poter meritare il perdono.
La realtà è che il perdono non è qualcosa che si meriti. Come l’amore. È un dono. Travalica le aspettative, supera la giustizia, oltrepassa la misura della logica, incoraggia a non fermarsi alla banalità.
Dio ci ama prima che possiamo comprendere il Suo amore, perché è quest’Amore che ci precede, che ci apre gli occhi alla luce della comprensione ed il cuore ad offrire uno spiraglio a perdonarci.
Dio ci anticipa, perché il suo desiderio di vedere la felicità nei nostri occhi è superiore al nostro: quando il nostro cuore è indurito dall’orgoglio, fatichiamo a vedere i nostri errori e preferiamo rotolarci nel fango del nostro “sono fatto così, non ci posso fare nulla”. Il nostro nulla può raggiungere il Tutto di Dio, solo se trova la Sua mano pronta a raccogliere il nostro sguardo, quando decidiamo finalmente di alzare gli occhi e cercare un’alleanza, invece di credere che sia possibile, rubando le parole a Churchill, che un uomo in piedi in un secchio possa sollevarsi tirando per il manico.
La drammatica logica e razionalità del sillogismo paolino ci mettono alle strette, spalancandoci il baratro da horror vacui dell’amore di Dio. Se ci fosse un sondaggio, non so quanti sarebbero disposti a morire per qualcuno reputato giusto. Ancora di più si assottiglierebbe il numero dei candidati se l’opportunità divenisse realistica. E sì che non è cosa impossibile. La storia di qualche anno fa, con il sacerdote polacco Maximilian Kolbe lo ha dimostrato: in quel frangente, egli ha fatto della propria stessa vita una liturgia e, agendo in persona christi, si è immolato al di là dei meriti della persona che ha salvato (ne ha preso il posto in quanto padre di famiglia, non perché fosse – necessariamente – “più meritevole” di vita di padre Kolbe).
L’amore non è questione di meriti, mai, scrive Giorgio Ponte, con sagace intuizione, nel suo “Levi”. È questo il kerigma del messaggio cristiano. È amore illusorio quello basato sui meriti, perché questi sono fugaci e transitori, spesso legati a circostanze e situazioni accidentali. L’amore vero è impegnativo e richiede – esige! – andare oltre i meriti, vivendo più di nonostante e di sebbene, che di a causa di. Sì, certo, l’amicizia o un amore possono scattare a causa di un sorriso, una complicità, degli interessi comuni, ma non puoi sapere se il legame è profondo e capace di resistere al logorio del tempo, finché non scopri che tale legame è capace di sopravvivere nonostante tutto quello che mi ha fatto!
«Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,4), chiede Nicodemo a Gesù. Nicodemo non è uno sprovveduto, è un uomo che ha vissuto molto, che ha raggiunto una posizione importante: è capo dei Giudei. Eppure, questa rinascita gli crea non pochi grattacapi.
Sicuramente, il brano del dialogo notturno tra il Maestro e Nicodemo offre numerosi spunti e chiavi di lettura: complice l’epistola, è significativo soffermarsi sulla possibilità di “rinascere dalle proprie ceneri”, come la leggendaria Fenice. Tale rinascita è possibile, solo quando accettiamo di perdere qualcosa di noi stessi, che, spesso è il nostro orgoglio di (presunta) autonomia, per lasciare spazio all’iniziativa di Dio, capace di regalarci una visione di gioco un po’ più ampia e creativa delle nostre possibilità.

(Rif: letture festive ambrosiane nella III Domenica dopo il Martirio di San Giovanni Battista, Anno B)


Fonte immagine: Pixabay

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