Lockdown, ancora tu, ma non dovevamo vederci più?
Venerdì 12 marzo: una sorta di ultimo giorno di scuola al contrario.
Sottobanchi svuotati con cura, armadi controllati da cima a fondo, affinché non rimanesse nemmeno un atomo di proprietà degli alunni. All’uscita zaini in spalla, colmi e pesanti. Se tutto questo fosse capitato a giugno sarebbe stato vissuto con un misto di pazza gioia ed un pizzico di nostalgia già incombente, mentre nel frattempo l’aria mite di fuori solletica tutti ad uscire. A metà anno scolastico, invece, con una pandemia ancora in corso, di gioia non c’è stata nemmeno l’ombra. Al suo posto s’è presentato un rammarico tutto imbronciato, conscio del ripetersi di una situazione purtroppo già vissuta.
È stato lui ad accompagnarmi al lavoro, nonostante non lo avessi invitato. Mi ha tenuto compagnia per tutto il tragitto, lasciandomi nell’animo un retrogusto di amarezza e di pacata rassegnazione. La piena comprensione delle misure di sicurezza, che ci costringono ad allontanarci gli uni dagli altri, non ha dato il suo contributo di sollievo sperato.
Dov’è il buono in questa storia? Me lo sono domandato anche io ed in parte me lo sto chiedendo anche ora. Di nuovo una Quaresima-Quarantena, lontano dagli affetti, senza che si riesca a scorgere una luce in fondo al tunnel? La risposta me l’hanno data loro, le mie piccole “armate Brancaleone”, come ogni tanto sono solita apostrofarli.
Nella teoria si chiama resilienza ed è quella straordinaria capacità di non farsi sopraffare dal mare in tempesta degli avvenimenti, perché nel frattempo si è trovato il modo di recuperare un salvagente per rimanere a galla e provare almeno a capire dove sia la terraferma. Una sorta di adattamento che non è rassegnazione, ma al contrario ricerca di una via per continuare ad esistere.
Nella pratica si è tradotta in una piccola montagnola di bigliettini, letterine, disegni, consegnati più o meno apertamente, qualcuno infilato a tradimento nella borsa e rinvenuto solo una volta tornata a casa. Semplici dichiarazioni d’affetto? Questa volta no, ma vere e proprie esternazioni di buoni propositi, di piccoli traguardi da voler raggiungere, affinché questo periodo non sia sterile attesa che tutto passi, ma un seme che viene costantemente nutrito e possa portare frutto.
La resilienza, tuttavia, non è una bacchetta magica che sistema tutto per incanto. Né tantomeno è un filtro color arcobaleno che nasconde il grigiore sotto una patina illusoria. Non è la soluzione al problema, bensì è piuttosto il metodo con cui si cerca di risolverlo. A prima vista può apparire come un semplice accontentarsi delle briciole – e forse in alcuni casi è davvero così – tuttavia, se ci troviamo ad annaspare in un mare in tempesta, aspettiamo che arrivi a salvarci lo yatch di lusso o tendiamo speranzosi le mani al salvagente che intanto ci viene posto?
Questa pandemia ci ha messo a nudo. Ci ha fatto ri-scoprire fragili, inermi, bisognosi gli uni degli altri. Ci ha tolto il castello di certezze che negli anni ci eravamo costruiti, tramutandolo in un traballante castello di carte. Affetti, lavoro, abitudini… niente è più come prima. Ma è soprattutto questo che dobbiamo imparare: non possiamo e non dobbiamo tornare allo stesso punto di partenza, come se non fosse successo niente. Una goccia d’acqua che scende dal monte, percorre il lungo fiume, si tuffa nel mare e torna alla montagna come fiocco di neve è forse uguale identica a come era partita?
In questa di-nuovo-Quaresima-Quarantena vi auguro di trovare il vostro angolino di resilienza da seminare ed annaffiare con cura. Arriverà – si spera presto – quel mattino di sole in cui ci ritroveremo sotto gli occhi un germoglio a darci il buongiorno.
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