Insisteva nel dire di no perchè voleva a tutti i costi dire di sì: diceva no a se stesso – «Io non sono il Cristo (…) Non lo sono (…) No (…)» – per dire di sì ad un’altra persona, all’Altro che contava per davvero: «In mezzo a voi sta uno». Il Battista, delle quattro operazioni della matematica, ama la sottrazione: vivere, per lui, è abitare la penombra, essere la vigilia dell’Amico, preparare la strada e poi farsi da parte. “Conta chi resta, il resto non conta” avrà confidato, con parole sue, a chi gli diceva che non era bello fare il secondo di nessuno. Lui, secondo di qualcuno, non lo è mai stato: per temperamento e per indole, ma ancor prima per missione. Era venuto al mondo per insegnare i verbi della vigilia: preparare, asfaltare, spianare, avvertire, cucinare, ordinare, progettare, aiutare. I verbi che, domani, lasceranno il posto a quelli della festa: sedersi, mangiare, gustare, bere e ascoltare. Stringersi la mano. Il tempo umano è una perenne vigilia del tempo di Dio: “Fammi la magia di restare – avrà bisbigliato nel segreto Gesù al cugino apripista -, che quella di scomparire la fanno tutti”. Se non scompaiono, taluni si fanno grandi senza esserlo. “Sono figlio di, tu non sai chi sono io, vuoi metterti a competere con me?” Il Vangelo mostra di conoscere molto bene i pescatori e la loro ars esagerandi: dicono sempre di avere la rete piena, anche quando piena non è. Giovanni, invece, vuol giocare pulito: “Già tanti si danno arie perchè non valgono nulla. Quale vantaggio dire d’essere altri se poi, messi alla prova, si sa già di non poter osservare le promesse?” «Non sono io (…) Sono voce».
Essere-voce non è essere portavoce: quest’ultimo ha il compito primario di spiegare meglio ciò che altri hanno detto senza farsi capire al volo, di mettere a posto frasi di (s)proposito ambigue, prolungare l’eco di un’affermazione. È gente che funziona con l’addizione, l’accumulo: parole aggiunte a parole per spiegare le parole. Esser-voce, invece, è andar bene con la sottrazione: togliere parole a favore di altri, tacere per fare parlare, rifuggire l’ambiguità della baraonda. Nella bocca del portavoce c’è la scusante: “Il signor-x non voleva affatto dire queste cose, è stato frainteso. Avete capito male”. Chi è voce, invece, non giustifica ma rilancia: “Lui grida: Rendete diritta la via del Signore”. Impossibile che si capisca dell’altro; possibile, invece, che qualcuno cerchi di ammorbidire il peso specifico di questo grido per farsi più gradito agli occhi della gente. Vera profezia, però, è lasciare le parole così come sono uscite di bocca. Nessuno ha mai detto che un profeta debba essere simpatico, nessuno ha mai promesso che fare il profeta è cagione di comodità: “Mi piacciono le cose impossibili – ha sempre ragionato così quel gran genio della Trinità -, così si vede subito chi scappa e chi, invece, resta e ci prova”. Il Battista è restato, ha provato, è riuscito. Facendo il secondo di Dio, è diventato il primo tra tutti gli uomini: «Fra i nati di donna – dirà il Cristo – non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista». La sfida, però, la lascia aperta: «Ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11).
“Aggiungere” è distrarsi, rischiare di manipolare, un tentativo di trucco: non c’è cosa più irritante di far dire ad altri ciò che non hanno detto. Raccontarsi per quello che non si è. Volendo aggiungere, non ci si accorge di quello che c’è: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me» (cfr Gv 1,6-8.19-28). Buffa questa cosa: c’è già, è in mezzo a loro, ma nessuno se ne accorge. Volendo far dire ciò che si vuol sentirsi dire, non si è più capaci di ascoltare quello che già è in onda. “Stiam aspettando il Messia!” rispondeva la gente-in-fila a chi chiedeva loro cosa stessero facendo. Il Messia, però, c’era già ma non lo riconoscevano. Quant’è buffo l’uomo, la donna: dicono d’aspettare il Messia. Poi, quando arriva e si siede accanto, continuano ad aspettare il messia che si stanno costruendo in testa. E si perdono il Messia: quello senza codazzo di portavoci. L’Uomo che invita l’uomo a farsi voce per non farsi ridere dietro aprendo la bocca a vanvera.
(da Il Sussidiario, 12 dicembre 2020)
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa».
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».
Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando (Gv 1,6-8.19-28).
Dal 9 ottobre, in tutte le librerie, Ciò che vuoto non è (San Paolo, 2020), il nuovo libro di Marco Pozza
Il vuoto: «Mesi di vuoto dappertutto: dentro, fuori, in basso, qualcuno temeva pure lassù. Non è stato così: eppure “benvenuti alla resa finale!” hanno pensato in tanti». E se quel vuoto fosse stata una misura: “Quanto ti manco?” In una casa, l’unica stanza piena è quella vuota: è tutta colma del suo vuoto, di se stessa. E’ davvero necessario riempire ogni vuoto a tutti i costi?
In Ciò che vuoto non è l’autore ripercorre gli articoli del Credo cristiano alla luce del vuoto dei mesi di pandemia: «L’uomo ha diritto di voto, la bellezza ha diritto di vuoto per brillare» scrive. Che nome dare a quel vuoto? Per chi crede il vuoto è una mancanza piena di nostalgia, per chi non crede è pur sempre un’esperienza mistica: certe domande, comunque, hanno bisogno di vuoto attorno per respirare. Ripartiamo, dunque! Da quel sepolcro che le donne, a Gerusalemme, hanno trovato vuoto il mattino di Pasqua. E’ d’allora che quella cristiana è fede fondata sul vuoto, fede che ha diritto di vuoto.
Tra memorie paesane e sprazzi di attualità, l’autore si concede delle lezioni di lentezza per cercare una risposta alla domanda che ci interpella ovunque, soprattutto sul ciglio dell’afflizione: “Perchè credere quando attorno è buio”? Nell’emergenza il Vangelo resta uno spicchio di luna a forma di falce: la parte fulgente illumina quella oscura. Che vuota non è (dall’aletta di copertina).
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