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Il primo brano mette in luce due categorie: “eunuchi” e “stranieri”. Sono entrambe categorie di persone che, presso il popolo d’Israele, non godevano affatto di particolare prestigio. Anzi! Si trattava, piuttosto di persone tendenzialmente ai margini di quella società. Basti pensare  a quanto prescrive, a loro proposito, il capitolo 23 del Deuteronomio (che è lo stesso libro in cui possiamo trovare anche una formulazione dei Dieci Comandamenti): è proibito loro di “entrare nell’adunanza dell’Eterno”, cioè al cospetto di Dio. Questo è detto degli eunuchi e di diverse categorie di stranieri, nello specifico, di quelli che si sono opposti (o, comunque, non sono stati solidali) con il popolo d’Israele durante la sua fuga dall’Egitto.
All’interno d’Israele erano presenti schiavi, appartenenti ad altri popoli. Alcuni, fra essi, rispettavano o, addirittura, seguivano la religione ebraica. Eppure, non essendo discendenza “di sangue”, generalmente non erano ben visti e tendevano ad essere lasciati, a livello sociale, ai margini.
Gli eunuchi erano considerati tutti coloro che, in seguito a disfunzioni, oppure evirazione, non possedevano le facoltà virili. Per estensione, con ciò si intendevano anche gli omosessuali. È considerata una deviazione dalla norma e, come tale, è prescritta, appunto, l’impossibilità di accostarsi alle cerimonie religiose, che nel capitolo 21 del Levitico, è, del resto, espressamente estesa anche a chiunque abbia quelli che noi definiremmo, oggigiorno ‘handicap fisici’ (zoppi, nani, gobbi, deformi, ma anche chi, semplicemente, è temporaneamente invalido, come chi ha subito una frattura). Uno di questi è il protagonista del brano della scorsa domenica, che parla di un eunuco: si tratta del funzionario d’Etiopia, che Filippo incontra sulla strada tra Gerusalemme e Gaza (At 8, 26-39, cfr. Filippo e l’eunuco: il respiro quotidiano, nella gioia!) e rappresenta il primo, tra i “lontani” a cui i primi cristiani diedero l’annuncio della buona novella evangelica.
In settimana, anche nel Vangelo di mercoledì (Mt 19, 9-12), si è parlato di eunuchi. In relazione al matrimonio, i discepoli, sono disorientati: Gesù presenta il matrimonio come una scelta drammaticamente seria ed estremamente rispettosa della dignità dei contraenti, lasciando intendere che l’uomo non possa considerarsi autorizzato a “dare l’atto di ripudio” alla propria moglie per motivi futili (come, al contrario, proponeva una corrente del giudaismo). Per questo motivo, i discepoli sbottano: “Allora, è meglio non sposarsi!”. Ma neanche questa obiezione va bene. Il Maestro di Galilea sottolinea come anche questa debba essere una scelta consapevole, dal momento che risulterà per molti incompresa, quando non incomprensibile. Non può essere minimizzata, in modo denigratoria, come la scelta di chi, come Perpetua, non abbia “trovato un cane che se la pigliasse”. Gesù ne approfitta per riabilitare dallo stigma chi, volontariamente, decide di abbandonare qualcosa di bello (formare una famiglia) per pensare, in modo esclusivo, al Regno di Dio: una tale scelta perderebbe la propria bellezza, se ciò a cui si sceglie di rinunciare sia qualcosa di brutto; ecco perché, quindi, prima, evidenzia come il rapporto uomo-donna sia un fatto che Dio per primo prende sul serio e solo in seconda battuta propone una scelta alternativa, altrettanto appagante, in una prospettiva di Chiesa in cui convivono una molteplicità di carismi e di ministeri (vd. 1Cor 12, 4-5), senza che, tuttavia, vi sia “concorrenza” tra gli uni e gli altri. 
Prima ancora di Cristo, vediamo che già il profeta Isaia mette al riparo dalla possibilità di fare recriminazioni o “graduatorie”: l’eunuco e lo straniero che rispettano la legge di Dio avranno diritto ad entrare nella casa di Dio, come suoi familiari, in quanto si sono dimostrati in grado di accogliere la proposta dell’Altissimo.

Egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia.
(Ef 2, 14-16)

In Gesù, nel Nuovo Testamento, l’alleanza con un popolo (il popolo eletto) si allarga all’intera umanità. Solo attraverso un vero israelita (quindi: dall’interno), poteva essere scardinata la legge, svuotandola del significato particolare, per fargliene assumere uno più universale. Andando oltre la storia del popolo d’Israele, la Croce diventa non più separazione, bensì riunione, nel segno di Cristo, dell’intera umanità, nell’abbraccio del Padre.

A partire, come sottolinea la parabola evangelica, da chi meno ti aspetti, in virtù del rifiuto di chi era, in principio, “nella lista degli invitati”. Nel racconto, infatti, all’inizio, a venire chiamati sono “gli invitati”, quindi quelli che, con ogni probabilità, già erano al corrente che ci fosse nell’aria un matrimonio: erano, in qualche modo, “pre-allertati”; mancava, forse, giusto il messaggio di conferma sul gruppo whatsapp dell’evento, come si farebbe oggi. Ma tutti sapevano già, più o meno, che ci sarebbe stato un grande evento.
Tuttavia, al momento di conferma, tutti quelli che erano già a conoscenza del lieto evento, nicchiano, inventano scuse e finisce che “tirano il pacco” all’organizzatore della festa.
Il tempo stringe, non c’è molta scelta: o accettare che sia un fiasco senza pari, oppure correre il rischio: investire su una fiducia sconsiderata e far usufruire della generosità della propria mensa a perfetti sconosciuti. Ecco allora che cambiano i destinatari dell’invito: non più i conoscenti, che si suppone siano di alto livello sociale, bensì “i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi” (Lc 14, 21); in sostanza, l’elenco si capovolge, rispetto a quello che troviamo nel Deuteronomio. Partendo da un principio giusto (a Dio si offrono le cose migliori, le “primizie”, e non le peggiori), si era concretizzata una discriminazione cultuale, che allontanava tutti gli “imperfetti” dalla possibilità di incontrare Dio.
Il brano proposto, al contrario di quello parallelo, di Matteo, che vede un “finale a sorpresa” (Mt 22, 12-14), ha un “lieto fine”: in questo (di Luca), tutti coloro che hanno risposto al secondo ed al terzo invito si siedono alla mensa. O, meglio, si conclude con l’invio del terzo invito, senza approfondire il seguito. La principale preoccupazione del padrone sembra sia duplice: quella di assicurarsi che i suoi primi invitati, da cui è rimasto deluso, restino a bocca asciutta e che, al contrario, la propria la casa sia piena della festa e dell’allegria di perfetti sconosciuti.  Matteo, invece, si sofferma, nel suo finale, su quanto accade ad uno dei commensali, che non ha indossato il “vestito della festa”: questi infatti è allontanato in malo modo, nonostante avesse accettato l’invito.
Paradossalmente, è proprio la conclusione di Matteo che ci aiuta a comprendere meglio perché chi, spesso, tendiamo ad escludere, anche solo inconsciamente, “ci passerà avanti nel Regno dei Cieli” (Mt 21, 31). Il commensale non aveva il vestito della festa, cioè non aveva compreso dove fosse stato invitato. Aveva frainteso quale fosse il contesto. Per intenderci: non si trattava di avere un vestito costoso, bensì adeguato alla situazione.
I veri poveri non confondono gli ambiti. Sanno quando occorre un vestito elegante: basti pensare a come, in campagna, i nostri nonni o bisnonni, che avevano molto meno di noi, non rinunciavano a tenere con cura il “vestito della festa”.
Credo sia opportuno mantenere in parallelo ambedue gli aspetti: Dio chiama alla sua mensa nella libertà e nella responsabilità: chiama ciascuno, affinché risponda con la libertà che è propria dei figli di Dio. Chiama anche chi ci dà fastidio. Eppure, una volta conosciuto l’amore di Dio, non possiamo relegarlo all’ultimo posto, se c’è tempo, come un hobby. Cristo esige che la sua Parola in-formi (cioè dia forma) perché tras-forma (cambia) la nostra vita!
(Rif: letture festive nella II Domenica dopo la Dedicazione: Is 56,3-7; Sal 23; Ef 2,11-22; Lc 14,1a.15-24)


Fonte immagine:
Pixabay

Fonti:
Eunuchi nella Bibbia, Luigi Accattoli

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