Utile e teodicea

La “sfiga” di Giobbe

La vicenda di Giobbe pare, in sintesi, quella di un uomo pio, ingiustamente vilipeso da Dio.Ma, tra, l’inizio e la fine, troviamo la riflessione, la discussione, l’angoscia, l’impazienza, il litigio. Perché, no: il libro di Giobbe non è quello di un tapino che, finito nelle mani di Dio come un burattino tra le mani di un bambino capriccioso, accetta supinamente qualunque cosa gli capiti nella vita.

“Nel mezzo”

Come spesso accade, a volte anche per negligenza catechistica, il rischio è quello di perderci la parte intermedia, che è poi – spesso – anche la più rilevante. Compresi diversi passaggi, in cui, nonostante la pervicace insistenza, non ci sta a dover confessare il falso1: non ha fatto nulla che meriti punizione. È stato integerrimo, scrupoloso, rispettoso della Legge, lui con i suoi familiari. Il male che sta vivendo – e che lo fa soffrire – non riesce ad essere incasellato e spiegato in una tabella a doppia entrata, di dare e avere.

Antecedenti

Come per altri brani dell’Antico Testamento – in particolare, ciò è vero per la Genesi – è possibile ipotizzare un antecedente in un testo accadico, che vuole tessere le lodi della sapienza di Marduk: in questa composizione, la prima azione d’ira rimane mitigata dal ritorno compassionevole, in una sorta di lieto fine: «Chi mi aveva abbattuto, Marduk, è lui che ora solleva il mio capo»2. Un secondo testo interessante, che tratta l’argomento del male, è poi la Teodicea babilonese, in cui possiamo trovare motivi di contatto nella forma dialogica, nell’ironia e nei motivi presentati alla teologia tradizionale.

Datazione ed argomento

La datazione del libro di Giobbe è incerta: sono sorte ipotesi che vanno dall’epoca premosaica, al II secolo a.C.: nessuna è preminente, perché, pur avendo riscontrato diversi riferimenti storici nell’opera, nessuno si mostra, però, dirimente rispetto alla questione. Ciò che invece emerge senz’altro è l’argomento, cioè la domanda sul male: come abbia origine, come si diffonda e come l’uomo debba affrontarlo. «Si Deus est, unde malum? Si non est, unde bonum?» così sintetizzerà Leibniz, nella sua Teodicea, riprendendo Boezio e attestando come Giobbe, nonostante la difficoltà di datazione, risulti “sempre attuale”, in grado di parlare al cuore dell’uomo di ogni coordinata spazio-temporale.

Vari generi, per un’opera inclassificabile

Poema epico, didascalico, narrativo, filosofico, escatologico? Come classificarlo? Chi lo vedo come un’epopea, deve giustificarne la mancanza di azione, come l’avventura interiore dell’eroe-Giobbe. Qualcuno vi scorge aspetti sapienziali, ma non si può dimenticare l’aspetto drammatico della narrazione, per cui è riduttivo fermarsi a questo aspetto, dal momento che l’aspetto didattico non pare – in verità – rilevanti. Abbiamo a che fare con un’opera letterariamente geniale, che rifugge ogni riduttiva classificazione.

Rinunciare alla perfezione

Nel mezzo c’è tutto il resto
E tutto il resto è giorno dopo giorno
E giorno dopo giorno è
Silenziosamente costruire
E costruire è sapere
è potere rinunciare alla perfezione3

“Non è la famiglia del Mulino Bianco”, diciamo per indicare la famiglia perfetta. E, siccome la perfezione non esiste, certe narrazioni ireniche sono persino urticanti. Come la situazione di Giobbe, descritta, nei primi versetti del primo capitolo del libro omonimo. Una perfezione tale da risultare – persino – fastidiosa.

Il senso della “prova”

Giobbe è un uomo ricco, probabilmente non israelita (stando alla geografia), che ha ricevuto ogni benedizione, secondo i canoni tradizionali: ha figli e figlie, una famiglia unita, a cui può offrire ricchi banchetti. Giobbe è un uomo pio e Satana replica: “Certo, non gli manca nulla!”. Anche noi, probabilmente, penseremmo così. Tanto è vero che difficilmente ci viene in mente che, scrostando la patina scintillante, dietro una famiglia che promana serenità, possano celarsi i problemi e le difficoltà che tutti affrontiamo quotidianamente. Perché il giusto, l’innocente soffra è una domanda che ci dilania, in ogni tempo. L’assegnazione del male è dunque fortuita, casuale, priva di ogni motivo razionale?

Servire, inutili

«Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 10)

La vicenda narrata nel libro di Giobbe spinge senz’altro a riflettere – tra le altre cose – sull’utilità. Perché un cammino di fede presuppone – inevitabilmente – anche una certa dose d’impegno, la fatica che è richiesta dal farsi domande e dall’approfondire cosa significhi l’arte di vivere e quale sia il suo senso più profondo. Ogni tanto, guardarsi intorno, potrebbe provocare lo scoramento, domandandosi a che pro, se questo cammino non esula dal dolore, dalla sofferenza, dalla malattia… se non dà alcuna garanzia di quella che – oggigiorno – chiameremmo una maggiore qualità della vita?

Del concetto di “inutile”

Cosa è inutile? Pensiamo allo studio. Ormai, come una pianta infestante, tale idea si è radicata nel nostro quotidiana. Ormai, anche tra i ragazzi più giovani, che dovrebbero ancora aprirsi alla vita, con speranza nel futuro, domina – al contrario – una rassegnazione ad una concezione capitalistica, dello studio, per cui gli studi letterari o linguistici, sono concepiti come l’anticamera della disoccupazione, a cui è inutile iscriversi già a diciannove anni!
Sì, si tratta di una mancanza di speranza: perché lo studio altro non è che «un atto di speranza pensare che questa fatica darà i suoi frutti in modi che ora non possiamo immaginare»4. Perché, l’alternativa è assegnargli valore solo in base alla sua funzionalità immediata, sminuendo la funzione dell’essere umano ad un oggetto, che necessita ogni tanto di manutenzione, per essere ancora utile, fino al termine, dettato dalla sua obsolescenza programmata5.

Utile e inutile

Già.. cosa è utile? Solo ciò che è immediatamente spendibile. Solo quanto presenta una possibilità immediata di utilizzo? Studiare la lingua dell’Odissea, quindi, sarebbe un’inutile perdita, per chi non concepisce che l’essere umano possa essere arricchito da nuove conoscenze, solo perché sono belle, anche se richiedono disciplina, perseveranza, tenacia.
A ben pensarci, tutto dipende dal riferimento. Perché l’intero lavoro dell’uomo, qualunque esso sia, se consideriamo che riguarda, comunque, solo un microscopico pianeta in un gigantesco universo, suona del tutto superfluo, se non ironicamente insensato.

“Perfettissimo”

“Dio è l’essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra” recitava, compito ed integerrimo il catechismo di san Pio X. Essenziale, preciso, ineccepibile. Sì, ma a un Dio così, ti vien da chiederti, potrebbe mai avere a che fare con l’uomo? A che pro? Quale contributo potrebbe mai dare l’uomo, occupando questa scomoda posizione di inferiorità, nel suo rapporto con Dio?

La scelta di Dio: l’Incarnazione

Logicamente parlando, è più che comprensibile pensare a Dio – al massimo – come l’Architetto universale dei massoni, oppure estraniato dal mondo, isolato ed inconoscibile, del tutto disinteressato alle sorti dell’uomo, come la divinità stoica. C’è un punto focale, nella storia della salvezza, che contrasta queste concezioni: è l’Incarnazione.

Sanctissimam humanitatem Filii Dei negant6

Nell’Incarnazione, trova posto la giustificazione alla possibilità di collaborare con Dio. Dio non aveva alcuna necessità di creare. È l’amore l’eccedenza che porta Dio al desiderio verso l’uomo, così come giustifica la possibilità di collaborare con Lui. Dio non ha bisogno dell’uomo, ma sceglie – nella storia della salvezza di avvalersi della mediazione degli uomini – Abramo, Mosè – fino ad entrare nel mondo, a condividere la vita degli uomini, tramite Maria di Nazaret. Ildegarda non solo individua la centralità dell’Incarnazione, contrapponendola alle dottrine dei catari, ma ne vede l’origine primordiale, cioè che tale “idea” fosse nella mente di Dio dal principio7.

Una metafora paradossale

Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? (Lc 17, 7)

Come risponderemmo noi, oggi, alla medesima domanda? Ciò interroga il nostro rapporto – anzitutto, in orizzontale, cioè con gli altri uomini – in presenza di sottoposti, chiunque essi siano? La richiesta è paradossale, per un servo. Ma ora che è abolita la schiavitù, lo è davvero nel nostro cuore? Oppure trattiamo differentemente le persone, a seconda del loro status sociale, salvo poi risentirci quando siamo noi, al loro posto?

Ricettivi alla grazia

Siamo servi, rispetto a Dio, perché possiamo collaborare con lui, ma – tramite il beneficio della nostra relazione con Dio – siamo molto di più. Lavoriamo per Dio, ma non siamo solo i suoi lavoranti. In virtù della redenzione, siamo figli di Dio. E lo siamo realmente!8. Non siamo “solo” lavoratori, ma, per andare alla metafora della vigna9, così frequente nella Scrittura, è come in quelle famiglie che assumono lavoranti stagionali solo per il raccolto, mentre si occupano in famiglia del lavoro ordinario. Allo stesso modo, nella gratuità dei figli, siamo chiamati ad agire, con quell’impegno perseverante ma sereno che sa che, oltre i propri meriti, la grazia agisce e finalizza il nostro lavoro quotidiano10.

“Non più per sentito dire”

«Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42, 5)

Forse in questo versetto potremmo racchiudere il senso profondo delle “prove” di Giobbe. Non sono le prove in sé (singolarmente prese) ad avere un senso (o, meglio: potrebbe essere difficile, per noi, comprenderlo appieno!), ma, piuttosto, è la fede “provata” ad uscirne arricchita, come sperimentiamo anche nelle nostre relazioni umane. Solo chi ha condiviso il nostro “buio” può davvero definirsi una persona importante, nella nostra vita!


1 “Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai furon distrutti gli uomini retti? Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie” (Gb 4,7-8)

2 Verso che ricorda, del resto, da vicino, un famoso passo di Giobbe: “egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana” (Gb 5, 18)

3 N. FABI, “Costruire”, testo della sua canzone, che dà titolo all’omonimo album, uscito nel gennaio 2006

4 T. RADCLIFFE OP, Perenne sorgente della speranza (Lettera del Maestro Generale dell’Ordine, 1995)

5 È stato infatti accertato che “il ricorrere continuamente a nuovi prodotti dipende da altri fattori, che non hanno nulla a che fare con la composizione fisica degli stessi” (G. Perini)

6 Così si esprimeva Ildegarda di Bingen, in una sua lettera, riferendosi – con ogni probabilità – alla prima diffusione dei Catari lungo le rive del Reno: «Sed homines, qui Heretici et Sadducei dicuntur, sanctissimam humanitatem Filii Dei et sanctitatem corporis ac sanguinis sui, que in oblatione panis et uini est, negant» (Hildegardis Bingensis Epistolarium. Pars tertia: ccli-cccxc, edd. L. Van Acker (†), M. Klaes-Hachmöller, Brepols, Turnholti 2001, CCCM, 91B, n. 381, p. 142, rr. 118-120).

7 «Hi sunt qui dominicum principium negant, scilicet quod ante antiquitatem dierum apparuit, quoniam Verbum Dei homo fieri debuit» (Hildegardis Bingensis Epistolarium. Pars secunda: xci-ccl r, ed. L. Van Acker, Brepols, Turnholti 1993, CCCM, 91A, n. 169r, p. 381 rr. 84-86), dove il “dominicum principum” fa proprio riferimento all’originarietà (“prima dei tempi”) dell’Incarnazione, nel disegno di salvezza divino.

8 1Gv 3, 1

9 Mt 21, 28-30, per citare un esempio liturgicamente ricorrente (nel rito romano di domenica scorsa, XXVI domenica del tempo ordinario)

10 Come possiamo vedere esemplificato nella vicenda del profeta Giona che, dopo mille peripezie per sfuggire alla volontà di Dio, trova un insperato successo, di cui non sa rallegrasi, perché non si è minimamente impegnato per ottenerlo!


Rif. Letture festive ambrosiane, nella VI domenica dopo la Decollazione del Precursore (Gb 1, 13-21; Lc 17, 7-10)

Bibliografia essenziale

  • L.A. SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, Giobbe. Commento teologico e letterario, Borla, 1985
  • M. RAININI, «SANCTISSIMAM HUMANITATEM FILII DEI NEGANT» Ildegarda e gli eretici fra visione e teologia in Germania nel xii secolo in “Rivista di storia del Cristianesimo” 2 (2019)

Vedi anche, sull’inutilità: Il superfluo indispensabile

Fonte immagine: Pixabay

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