teseoNella tabella di marcia del 20 0ttobre 2010 stava scritto: “3 volte i 5000 m. a 3’40″/km con 5′ di riposo attivo tra l’una e l’altra (guarda l’allenamento). Più 4km di riscaldamento (guarda il riscaldamento) e 1km di defaticamento.”

In più di 90′ di corsa, ho avuto modo di pensare tanto ieri pomeriggio nello “Stadio di Caracalla”. Condivido con la mia Arianna – della quale sono in breve divenuto il suo Teseo – qualche pensiero partorito sotto sforzo. Forse è un po’ la versione sportiva del “filo d’Arianna”, ovvero un tentativo di percorso verso l’uscita, la libertà, la vita.

 

(frammento di lucidità numero 1. Durante la prima ripetuta mentre sentiva un allenatore incitare i suoi ragazzi)

 

E’ un mestiere strano sia quello dell’allenatore che quello dell’educatore. Uno strano e appassionante mestiere di vita: li trovano che sono ancora infanti i loro “atleti”, ma ne fiutano già le potenzialità nascoste dentro. Ci vivono assieme – nel buio di una palestra di periferia o all’ombra di un campanile nulla cambia -, li aiutano a crescere, a maturare, fino a far esplodere il meglio che sanno fare, il meglio di ciò che sono. Ma nell’atto della performance (un’olimpiade o una scelta di vita) sanno di doversi mettere in disparte, starsene a bordo campo e accettare di vivere e dipendere dall’azione di chi fino ad allora hanno allenato. Per entrambi, però, qualunque sia il risultato finale, quell’atleta è stato il miglior investimento di una carriera che si nutre di fatica e passione.

Cioè di ascesi.

 

(frammento di pensiero numero 2. Durante l’ultima ripetuta: sotto sforzo estremo)

Ma che cos’è l’ascesi? Il termine ascesi (dal greco askesis) vanta un campo semantico che oltrepassa la banale rinuncia, il distacco dal mondo, l’esaltazione esasperata del dolore come arma per affinare l’interiorità. Nel suo etimo originario tale termine evoca l’esercizio e la pratica per affinare qualche abilità. Per il popolo greco anche il soldato – che si esercitava nell’uso delle armi – e il lottatore – che s’allenava e s’apprestava alla battaglia – erano degli asceti. L’esercitazione nel bene e la repressione delle passioni nocive resero prezioso questo termine pure al fatto cristiano. Ma entrambe le sfumature – sia quella pagana che quella cristiana – fanno riecheggiare nell’animo l’idea dell’esercizio, dello sforzo, dell’applicazione per inseguire e conquistare determinati traguardi: diversi a seconda della prospettiva da cui s’inizia il viaggio.
Pure il corpo chiede applicazione e pratica per essere valorizzato e vissuto in modo positivo: non sarà difficile leggere dietro una sana passione per il proprio corpo un rispetto anche per l’anima che lo abita. In questo senso lo sport – e il gesto che ne è l’esplicitazione esteriore – possono essere letti come una forma ascetica, seppur senza religione. Anche un neofita dell’esercizio sportivo s’addentra ben presto nella frequentazione di termini che richiamano il sudore e la caparbia ricerca del meglio da conquistare: passione, applicazione, metodo, stile, fantasia, caparbietà, aspirazione, sogno, costanza, emozione, sacrificio. L’animo dell’atleta viaggia vicinissimo a quelle frequenze che fecero di gente dalla biografia comune grandi santi additati dalla chiesa: la sfida, il limite, l’oltre, l’ardire, il confine, il record. Il santo e l’atleta – pur partendo da posizioni diverse e partecipando ad aspirazioni diverse – tengono la convinzione che l’uomo sia proprio così: sempre oltre, sempre in stato di parto, sempre cacciatore lanciato all’inseguimento di una preda.

L’esperienza che invade e conquista l’animo di un giovane che s’addentra nelle cattedrali dello sport ha qualcosa che rinvia al concetto stesso del rapimento, dell’estraneazione, dell’estasi, della perdita e del ritrovamento di sé: termini che non sono per nulla estranei alla teologia cattolica e alla spiritualità che si tramanda di generazione in generazione. Dal momento che l’ascetica sportiva e quella religiosa tendono a ritrovarsi sotto il medesimo traguardo: quello di mettere l’uomo nudo di fronte a se stesso e spingerlo verso il bene massimo di cui è capace nel tentativo di accenderlo. Scrive Roger Bannister: “Possiamo giocare a guardie e ladri con la realtà, senza mai affrontare le verità che ci riguardano. Nello sport ciò è impossibile. Con il suo confuso alternarsi di fallimento e di successo, lo sport ci scuote alle radici, ci spinge verso le più straordinarie scoperte su noi stessi, mette a nudo i nostri limiti e le nostre capacità“.

 

(frammento numero 3. Durante il riposo contemplando una nuvola di bambini che correva)

 

Allenare un giovane allo sport e allenarlo alla dimensione della fede, pertanto, è un’educazione che corre per certi versi parallela, almeno nell’attimo in cui l’obiettivo è quello di preparare le disposizioni interiori, le fondamenta sulle quali poi poggiare e realizzare il progetto architettato. La dimensione sportiva spartisce con l’atto di fede quell’ordine del cuore che è necessario tanto per fare di un buon ragazzo un possibile campione quanto per fare di un giovane fedele un possibile santo: la storia racconta di campioni smarritisi per il disordine del cuore e di santi mancati per non aver creduto nella regola spirituale. Educare allo sport è fare ben presto esperienza di quell’essere nel mondo sempre in bilico tra la dispersione nell’inautenticità e la possibilità di riprendere in pugno il proprio destino. Un essere-nel-mondo che attraverso l’esercizio ascetico può aprirsi ad un essere-per-la-vita in modi intensi e radiosi fino ad affrontare un essere-per-la-morte che ne costituisce il marchio d’autenticità. Qualsiasi allenatore-educatore che sia tale sa che il suo messaggio è fatto per chi sa osare, per gente caparbia e appassionata, per uomini di grande statura individuale. L’opposto è la creatura destinata a disseccarsi fino a precipitare nel banale. E’ sempre possibile fallire simile traguardo: in ogni caso, chi vuol tentarlo deve rimettere in gioco ogni volta tutta la posta. O, ben più arditamente, sfidare quella tentazione di inautenticità nella quale i sensi s’appisolano definitivamente. Non per nulla il psicologo Viktor Emile Frankl, una volta uscito vivo dal lager, spese la vita per combattere quella che lui chiamava la malattia esistenziale. Girò il mondo per dire a tutti: “Tenete duro, perchè per tutti la vita ha un senso”.
Per tutti c’è una Bellezza nascosta che ci salva dalla disperazione.

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