Mettiti
dietro il Duomo di Asiago e osserva. Uno indossa la tonaca filettata, le scarpe
rigorosamente nere e un basco in testa. Un altro tiene il breviario
sottobraccio e il colletto bene in vista. Qualcuno ama camminare da solo,
qualcun altro in gruppetti. I più se ne stanno seduti sulle panchine. Si parla.
Si chiacchiera. Si mormora. Si prega! Davanti allo stadio del ghiaccio c’è chi
ascolta musica da un Hipod, chi si connette ad internet da un portatile, chi
prepara l’omelia chattando sul cellulare. Non li disturba più di tanto l’ultimo
pungolo di un settimanale: "Preti
catodici o preti cattolici". Sanno a Chi hanno dato fiducia. E questo basta
loro per alzarsi all’alba. Vestono sportivo, parlano linguaggi giovani, sognano
giornate da protagonisti. Anche loro sono preti: dell’ultima generazione. Ma cosa
cambia?
L’appuntamento
per tutti i preti di Padova è ad Asiago: per stare assieme tre giorni. Per
sentirsi una squadra. Convocati dall’ Allenatore. Anche loro recano impronte
d’uomo: fatto di terra e reso vivente da un soffio di vita, l’uomo pensa.
Abbozza. Crea. Porta avanti la storia. Perché è comando divino, intuito del
pensiero uscito perentorio dall’alfabeto stesso di Dio. Un segmento di
scommessa dis-umana.
Qualcuno
si chiederà: "Siamo gli ultimi cristiani?
Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non siamo gli
ultimi cristiani". (J.M.Tillard). Certo: i tempi cambiano. Mala tempora currunt – potrebbero aggiustare
i più pessimisti -. Mi dissocio. Essere
preti – ieri, oggi e domani – significa assistere assieme al mondo allo
scorrere del tempo, essere testimoni della sua possibilità di risurrezione.
Questa è la sfida che non muta. Oggi essere prete è affascinante, misterioso,
indecifrabile. E’ compito nostro avventurarci coraggiosamente
nell’imprevedibile, tuffarci nella novità, disarmare l’abitudine con la
fantasia. Sono gli individui che spalancano la strada alla profezia, ma per
essere uomini eccezionali occorre mettere in movimento un popolo, accenderne
l’ansia, i sogni. I passi. Anche se un dilemma rimarrà irrisolto: è l’uomo che
si fida di Dio o è Dio che si fida dell’uomo.
Oggi,
anche all’interno della Chiesa, si proferiscono molte parole, si scrivono molti
documenti, si curvano gli scaffali delle biblioteche. Il linguaggio teologico sta
diventando come il politichese: zona riservata agli addetti ai lavori.
Purtroppo… perché il discorso su Dio
contiene sottigliezze, finezze e sfumature che, sole, riescono a ringiovanire
l’anima. Ma va bene lo stesso: prestate
orecchio, sfogliate i testi, collezionate gli articoli. Ma non dimenticate –
come ama puntualizzare don Dante Clauser – che la nostra legge essenziale, il
nostro documento fondamentale è il Vangelo. Innamoratevi e sprofondate dentro
questo torrente d’eternità che bagna il tempo, che feconda la storia, che
disseta l’uomo. Ma amatelo così com’è giunto fino a noi: nudo e crudo. Se
volete intendere il cristianesimo evitate troppi discorsi, non leggete troppi
documenti. Neppure badate ai cattivi esempi che purtroppo diamo noi cristiani.
Noi preti.
Frugate nel
Vangelo: lì dentro alberga una Parola dalla potenza inaudita.
Anche se
io, prete, a volte m’azzardo di anestetizzarla!