Lo ricorderanno come profeta amabile di una misericordia che non cancella la giustizia. E di una giustizia che non corra il rischio di trasformarsi in vendetta. Perché, illuminato dal mistero di Gesù di Nazaret, l’uomo rimane ancor oggi l’unica scommessa sensata e da vincere. Una mattina di dicembre l’hanno visto varcare la soglia del carcere di Rebibbia, ma è come se simbolicamente avesse varcato la soglia di ogni loro cella per stringere la mano e porgere loro un frammento della speranza cristiana, quella che, attendendo il tempo futuro, è capace di riorganizzare il tempo presente. La semplicità umana di quel gesto ha reso Benedetto XVI familiare e amico al mondo che abita dietro le sbarre delle galere, laddove spesso la colpa è terreno fertile e occasione di grazia per inaspettate risurrezioni. Nel carcere di Padova ieri hanno voluto celebrare messa per lui, per questo Papa che sovente è stato voce e sorriso di chi non ha più voce e ha smarrito la voglia di sorridere. Un grazie «a modo loro», scritto e firmato da uomini col passaporto di ferro e cemento, che hanno in una cella il punto di osservazione sul mondo.
Questi reclusi non per scelta, ma per scelte sbagliate, riescono a cogliere il pudore quasi monastico del volto di Benedetto Xvi, quasi disturbato dal frastuono disordinato del mondo d’oggi. E lo stile sobrio ed essenziale di un uomo che ha messo al centro del suo pontificato, e del suo pensiero, il racconto della storia della salvezza, così, quasi confidando a persone disperate e senza più patria civile e morale che nel Vangelo c’è ancora e sempre la bussola che aiuta a non vagare a vuoto nelle strade del mondo.
Nel presentare il suo primo volume della storia di Gesù, Benedetto XVI chiese un «anticipo di simpatia» senza la quale non ci può essere vera comprensione. Lo chiedeva per il suo lavoro e, forse, lo chiedeva pure per il suo pontificato. E, ancor di più, per leggere pagine di storia di complessa trama e di difficile interpretazione, dove i fili del bene s’intrecciano con i fili del male. E di comprensione profonda c’è bisogno qui, perché nell’alfabeto delle galere non esiste la cultura del perdente, ma solo l’esaltazione del vincitore (e non è molto diverso là fuori, perché anche la storia degli uomini “liberi” viene scritta dai vincitori). Forse per questo, a stregarli più ancora delle sue parole è stata la profondità dell’ultimo gesto, l’umiltà di tirarsi in disparte con quell’amabilità che è il tratto caratterizzante della sua persona. Quel suo raccontare la vecchiaia, l’esperienza della fatica e del limite è stata un’altissima lezione di umanità per questi uomini che, a loro modo, si sono messi “al posto di Dio”.
Ci sono parole e incontri che cambiano la storia dell’uomo: di questi, sovente, ci rendiamo conto molto tempo dopo. Anche nel Vangelo è la luce della Risurrezione a permettere agli apostoli di comprendere la loro storia passata. Il magistero di questo Papa ci ha fatto comprendere meglio il segreto più bello, quello che accende e tiene in vita ogni vera speranza: c’è un’intelligenza buona dentro il grembo di ogni cosa, c’è una luce possibile dentro ogni vicenda. Per coglierla, o semplicemente intuirla, è necessario però sempre un «anticipo di simpatia». Perché l’uomo, in qualsiasi caos abiti, è prima di tutto una creatura che comincia e ricomincia per amore, anche quando meno se lo meriterebbe (e, anzi, è allora che ne ha più bisogno).
A Benedetto XVI un grazie che si fa preghiera. Preghiera che in queste ore sale anche dal ventre delle galere: per essere stato voce dell’Eterno tra questi ultimi, aiutandoli a immaginare la bellezza e la vera giustizia del Giudizio finale, ad aggrapparsi all’accoglienza amica di colui che è stato carcerato. Un grazie a un Papa al quale dietro le sbarre più d’uno ha aggiunto, come povero dono, un accento. Perché l’ha sentito Papà, per davvero.
(da Avvenire, 23 febbraio 2013)