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Una donna, rimasta vedova, che ha perso anche i propri figli. E il gusto per la vita. Veste il lutto, si piange addosso, è incapace di rialzare lo sguardo. Questa donna è figura di Gerusalemme, rimasta senza i figli, cioè il popolo ebraico, durante la “cattività babilonese”, durata circa 50 anni. È in quegli anni che, nel cuore degli israeliti, nasce la convinzione che arriverà un Messia, che salverà Israele.
Eppure, la deportazione è conclusa. I figli non sono perduti per sempre. Stanno tornando verso la città santa: Ciro, re dei Medi e dei persiani, sconfitti i babilonesi, ha concesso loro il ritorno. Quello che segue è un ritratto idilliaco, oltre che un invito alla gioia. L’invito è a riprendere I vestiti migliori, che simboleggiano una rinascita ed una riconquistata voglia di vivere.
Gerusalemme riceve un nome nuovo: «pace della giustizia e gloria della pietà» (Baruc 5, 4). Per la cultura semita, un nome non è mai casuale. Ricevere una nuova designazione corrisponde ad un destino a cui si è chiamati, ma anche ad una novità radicale, un’innovazione profonda, a cui ciascuno di noi è chiamato a rispondere con un corrispondente cambiamento, nella propria esistenza, affinché la chiamata non si rivela inefficace o vana.
L’invito è a guardare ad oriente, ad est: dove sorge il sole, che, ogni ventiquattr’ore, dà inizio ad un nuovo giorno, splendendo sui “buoni e sui cattivi” (cfr. Mt 5,45) e, per questo, divenendo simbolo della divina giustizia. È da oriente che arriva il nuovo. Cristo, nuovo Sole, procede da quel punto cardinale. Ma ci viene incontro.

 

Anche San Paolo, nella seconda lettura, ci invita a guardare a Cristo, come ad un modello a cui guardare, affinché noi stessi possiamo diventare un esempio,c he possa richiamare l’amore stesso di Dio, al di là delle nostre umane debolezze ed imperfezioni:

«Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di aver tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché di un solo animo e d’una stessa bocca glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo» (Rm 15, 5-6)

È nella comunità che siamo chiamati a dimorare e ad incontrare Cristo, Presente e Vivo, in mezzo a noi: non siamo atolli nell’oceano, ma, come evidenzia anche la lettera di Giovanni («Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» 1Gv 4,20-21), solo nel tentativo di amarci come Dio, potremo trovare quella Comunione che, in terra, è (pallida) prefigurazione di quella celeste.

Se Baruc ci rappresenta un idillio di là da venire e san Paolo sottolinea a Chi dobbiamo guardare, Luca ci spiega come sia possibile che il vaticinio del profeta possa avverarsi. E ci fa capire che è necessario rimboccarsi le maniche, se vogliamo diventare protagonisti, nella vicenda del Dio che si fa Uomo.
Il capitolo terzo prende l’avvio da un’introduzione della figura del Precursore, con una dovizia di particolari da far invidia allo storico più consumato:

«Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3, 1-2)

Sin dall’inizio, Giovanni Battista è presentato come “uomo del deserto”, con tutto il corollario che una simile connotazione – inevitabilmente – comporta. Uomo di mistica, aspro come le pietre accarezzate dal vento e sferzate dalle tempeste di sabbia del deserto del Negev, non è uomo che le mandi a dire. Uomo di pace, prepara gli animi alla guerra contro il Male, invitando alla conversione, alla penitenza e al ripudio di qualunque peccato. È alla gloria che mira: Giovanni è profeta perché, nell’uomo coperto di fango, vede la possibilità di redenzione, cioè di piena di aderenza al disegno di Dio su di lui.

«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» (Lc 3, 4-6)

L’immagine di un uomo, sporco per via di un duro lavoro manuale, ci rimanda all’impegno senza sosta di chi non teme di stancarsi troppo, nel quotidiano lavoro, anche quando esso è fisicamente logorante. La gloria, presente nel pensiero di Dio sull’uomo, non si può manifestare su di noi, senz’attraversare un lavoro manuale, faticoso, perseverante: un paziente “lavoro edile”, per far spazio a Dio, nel nostro cuore, cioè nella nostra vita, nel nostro tempo, nelle nostre scelte, nella nostra quotidianità.

Folle arrivavano a lui, che predicava, in modo itinerante, lungo la Valle del Giordano. Sbagliamo, però, a pensare che si tratti di un predicatore che ammiccasse loro, perché era con epiteti ed espressioni forti che si rivolgeva agli astanti:

«Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? Fate dunque opere degne della conversione e non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre. Anzi, la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco» (Lc 3,7 – 9)

È un equivoco comune quello di ritenere che il popolo di Dio debba essere incoraggiato e sostenuto. Da sempre, un sano pungolo verso il Bene è l’intervento più salutare, per l’anima in cerca di Dio. Tanto che in molti si rivolgevano all’ultimo dei profeti, con un’unica, insistente domanda: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3, 10).
La Parola di Dio ci pungola: spesso, però, facciamo fatica ad essere concreti. Talvolta, i propositi si moltiplicano; ma tutti, uno dopo l’altro, si sgretolano: erano pie illusioni, volte in alto, ma senza gettare uno sguardo sul reale. Stupiscono le risposte di Giovanni. Da un uomo che veste di peli di cammello, che si ciba di miele selvatico e locuste, che vive come un eremita e predica in modo politically s-correct, ci aspetteremmo risposte elevate, quasi irraggiungibili. Invece, troviamo risposte di buon senso, concrete, realistiche, aderente alle possibilità del reale. Non si tratta di diventare tutti eremiti. Ognuno ha il suo posto nella storia. Ciascuno, però, può migliorare, per così dire, dall’interno, il proprio ruolo, riempiendo di Cristo il proprio essere madri, padri, figli, educatori, lavoratori, imprenditori.
Riducendo tutto ciò ad un’unica domanda: sto cercando quale possa essere lo sguardo di Dio, nella mia quotidianità?
Solo se lavoriamo sodo, senza paura di sporcarci un po’, il Natale non ci troverà impreparati!

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella II Domenica di Avvento (Bar 4, 36 -5, 9; Rm 15, 1-13; Lc 3, 1-18)


Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove

Fonte immagine: Pexels

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