Chiunque, di fronte all’arrivo di un ospite, pensa istintivamente a “sistemare le cose”: il proprio aspetto, come la propria casa, per essere accoglienti, devono essere puliti e ordinati. È un modo per mostrarsi disponibili, per onorare l’ospite in arrivo presso la propria dimora, per fargli sapere che è gradito e che siamo felici della sua visita. Ci hanno sempre insegnato così, da che mondo è mondo!
Tuttavia, persiste l’altro lato della medaglia. Se ci “abbelliamo troppo”, rischiamo di sembrare quasi falsi, tanto diversa è l’immagine che stiamo dando rispetto alla nostra quotidianità. Che, per onorare un ospite, io rinunci alla maglietta bucata sponsor della birra vinta al torneo di minibasket di 15 anni prima ci sta (diciamo, anche, che è quasi doveroso!). Ma, faccio un’esasperazione, se mi metto ad innaffiare i fiori in tailleur, l’immagine risulta quasi ridicola. Perché anche il più distratto tra gli ospiti si accorgerebbe che è una forzatura.
Ci sono dei miei parenti da cui ho sempre avuto piacere di andare, fosse anche solo per un pomeriggio e, inizialmente non capivo il motivo. Certamente, posso assicurare che la loro casa non fosse generalmente a soqquadro, né invasa da suppellettili riuniti alla rinfusa nelle stanze più disparate, senza alcuna connessione logica tra loro.
Però, ne ho avuto conferma anche di recente, poteva capitare tranquillamente di trovare un po’ di polvere dietro gli angoli o gli stipiti delle finestre, gli asciugamani non erano preziosi, non c’erano particolari bagnoschiuma ricercati e da sotto i tavoli o le poltrone spuntava birichino qualche giocattoli utilizzato abitualmente dai numerosi nipotini, così come la casa pullulava di grossi pennarelli e fogli di carta per la creatività dei più piccini e, in mezzo alla sala da pranzo, il tavolino basso non recava certo preziosi abbellimenti o soprammobili, perché disponibile ad essere utilizzato come piano di gioco per bambini.
Forse qualcuno storcerebbe il naso, ma questo mi ha fatto pensare allo spirito del Natale.
Dio si è fatto uomo, ha preso carne e sangue e si è fatto spazio nella nostra quotidianità, tra trenini e pennarelli, tra un mestolo da cucina e una ramazza per pulire, tra la legna da ardere nella stufa e i cappotti sempre troppo numerosi per aderire ad un attaccapanni di misura adeguata.
Già, Dio l’Essere perfettissimo Creatore e Signore ha scelto deliberatamente di abitare come un bambino la terra; come chi, cioè, rende inadeguato tutto: gli spazi, le parole, le intese, le concezioni. Un bambino rivoluziona tutte le nostre certezze, basti pensare a quanto cambia la vita di una coppia all’arrivo di un pargolo: una felice rivoluzione, che inebetisce gli intelligenti, mette a dura prova gli organizzati, incrina le certezze dei più autoritari. Il sorriso del proprio bambino sarebbe capace di scalfire anche il granito puro!
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È stato fatto un esperimento da Pro Infirm (vedi video): alcune persone, con handicap fisici, si sono prestate e sono diventate modelle per dei manichini fatti a loro immagine e somiglianza. Qualche passante è rimasto stranito, ma chi aveva qualche difetto simile si è sentito “rappresentato”.
Se ci fermiamo all’esteriorità, naturalmente, il rischio è quello della demagogia allo stato puro. C’è qualcosa di più profondo da tenere presente, invece, a mio avviso. Ognuno è come è, anche e soprattutto nel carattere, nell’esperienza, nei gusti, nelle abilità, nel pensiero. Ci sono potenzialità grandiose che, se cerchiamo sempre e solo l’uguale, rischiamo di perdere inesorabilmente.
Ma la prima questione che deve essere chiara è che la vera perfezione è essere se stessi, alla massima potenza: scoprire i propri limiti, difetti e potenzialità e lavorarci fino a perfezionarli sempre di più, come fa un abile cesellatore, smussando i difetti, rinvigorendo i punti di forza ed esaltando le qualità. Non è far bella mostra di sé, è migliorarsi. Chi crede, lo chiama cammino di santità, e si affida alla preghiera e alla presenza di un Dio vicino e fatto uomo che conosce le debolezze di tutti e di ciascuno. Chiunque, però, sa e si rende conto, nel corso della vita, che questo percorso, condiviso con gli altri ci arricchisce e ci rende migliori. Si tratta di un percorso che consente di prendere la “materia prima” che abbiamo tra le mani, cioè noi stessi, fino a conformarci al nostro vero essere, quello che ci appartiene, sfrondato di tutti quei fronzoli e quegli orpelli che impolverano le nostre qualità migliori, facendole sembrare meno luminose di quanto siano effettivamente.
Si parla tanto di identità, contrapposta all’accoglienza. Se ne parla, a livello cittadino, nazionale, globale. Se ne parla, a volte, a sproposito. Un po’ come quei proclami troppo ampollosi per poter essere considerati credibili a livello personale e quotidiano, della vita di ogni giorno fatta di quelle cose piccole all’apparenza ma grandi per il significato che rivestono. Sì, perché, così come i bambini s’incantano di fronte a un fiocco di neve, anche noi riusciamo ad essere pervasi da un sorriso non di facciata, ma intimamente profondo, di fronte a quella sottile consapevolezza quale può essere la certezza che, di fronte a una difficoltà, un amico ci sarà, anche se distante, impegnandosi a suo modo a fare il pagliaccio. Il modo in cui l’hai capito a volte è davvero un’inezia, una cosa da nulla, a livello, per così dire, oggettivo: ma è testimonianza di una presenza, di una capacità di prendersi a cuore l’altro e le sue sensazioni (persino quando non le condividi o non ti paiono così rilevanti da procurarti preoccupazioni o malesseri), così come un’azione piccola come togliere i bruchi dalla rosa era testimonianza che il Piccolo Principe ci teneva e non voleva le avvenisse nulla di male.
La realtà è che il primo passo verso l’identità è sempre chi sono io, la prima persona da perdonare sono io: accogliere me stesso è innanzitutto far pace coi miei limiti e con quelle cose che capisco che non sono per me e non lo saranno mai. il secondo passo è poi credere in me, in quei germi di bene che possono crescere, se adeguatamente curati e rinvigoriti e in quei germi di ostacolo che, al contrario, posso essere, a poco a poco, resi sempre più innocui rispetto al disturbo nei confronti del mio cammino di crescita personale.
Nel mio dialogo con l’altro, è necessario poi che io faccia il possibile (anche se è innegabilmente difficile) per garantire all’altro questo stesso spazio di libertà. L’altro è se stesso, non è me, ha le proprie reazioni, non le mie, i propri sentimenti, non i miei. Ci può essere affinità, consonanza, ma la differenza sussiste sempre (e me lo auguro anche); se non ci fosse, le ipotesi da considerare sono , inevitabilmente, due: la prima è che ci sono sulla Terra due creature uguali e il che sarebbe una delusione incredibile, perché significherebbe che la fantasia del Creatore si starebbe esaurendo, la seconda è che uno dei due accetta di diventare uno “zerbino”, una ”fotocopia” di un’altra persona. Personalmente, questa situazione mi risulterebbe oltremodo fastidiosa. Io sono la prima a sapere di avere un carattere non proprio pacifico, quindi avere un doppio non mi servirebbe, anzi aumenterebbe la mia stizza: nel confronto con altro, io mi metto in discussione e cresco nella consapevolezza di me stessa e delle mie convinzioni, sia quando le confermo, sia quando decido di smantellarle, perché ai miei occhi hanno perso il loro vigore. Questo atteggiamento sembra amorevole può, al limite, dare l’impressione di essere appagante, sulle prime; con il passare del tempo, però dimostra tutta la sua pochezza : non ti sprona a ricercare il tuo limite, né a far meglio, non stuzzica né fantasia né creatività; si limita ad “adorare” il tuo qui ed ora, mummificandolo come situazione eterna e permanente ed impedendoti di fiorire fino al tuo meglio.
«Fate a gara nello stimarvi a vicenda» (Rm 12, 10) esorta l’Apostolo: questa credo sia la chiave di volta, che può accompagnarci nella scoperta di nuove sensazioni e ricchezze, all’interno delle nostre quotidiane relazioni. Siamo tutti diversi, ognuno con le proprie peculiarità. Se guardiamo all’altro per la ricchezza che può darci, amandolo anche nella sua fragilità perché fattore identificante, riusciremo anche ad imparare a perdonarci di più e meglio, prendendo il coraggio di quella confidenza di mostrarci ( almeno a chi ci ama per come siamo) nella nostra più cruda nudità (quella che richiede vero eroismo per essere mostrata), cioè quella che ci fa essere “solamente noi stessi”, senza il mantello da supereroi di cui ogni tanto ci rivestiamo.