Viviamo in un mondo in cui abbiamo tutto a disposizione. La tecnologia ci aiuta, talvolta ci sovrasta. In molti casi, beninteso, è anche più che utile. Basti pensare al caso della domotica, specie quella a servizio dei disabili. Riesce a consegnare soluzioni pratiche, per migliorare la qualità della vita di chi ha difficoltà motorie, ad esempio.
Talvolta, però, ne facciamo un uso deteriore, che danneggia, in modo particolare, i più piccoli. La fantasia, l’inventiva, la progettazione, la creatività.
Iniziano a giocare con i giochi elettronici già nei primi anni di vita. Guardano i cartoni animati.
Iperstimolazioni visive ed uditive, pressoché nulle in tutti gli altri campi. Mai come in quest’epoca il senso del tatto, ad esempio, è ipostimolato. Probabilmente, la maggior parte dei bambini fatica persino a distinguere gli oggetti in base alla loro consistenza, temperatura, viscosità.
L’unica cosa che toccano sono, al massimo, gli schermi touch degli smartphone, sempre più sensibili al tocco, mentre le dita stanno perdendo la loro sensibilità.
Per non parlare poi dell’olfatto, visto che anche un gran numero di sport, una volta giocati all’esterno, sono ora praticati all’interno. Pensiamo alle palestre sempre più diffuse, ad esempio.
E anche quando si tratta di qualcosa che non sia elettronico, le cose non vanno meglio.
Ogni giocattolo è ipoallergenico, testato, preparato, confezionato. Al bambino non resta che estrarlo dalla confezione e giocarci. Forse per qualche ora. Poi, generalmente, si annoia. Cerca nuovi stimoli. il problema non è che i bambini non si accontentano, bensì che quello con cui giocano non è sufficientemente stimolante, per loro.
No, non intendo dire che i giocattoli debbano avere componenti pericolose o che sia sbagliato controllarli. La mia direzione è un’altra.
Il problema che ne deriva è che quasi l’unanimità dei bambini occidentali ha perso di vista cosa significhi la progettazione. Si abituano, fin da piccoli, che il gioco è qualcosa che fanno perché qualcuno gliene consegna uno “già pronto”.
Hanno a che fare, sempre, con qualcosa che è “usa e getta”, quindi, sin da subito, entrano in questa mentalità. Lo prendono, sperimentano finché è possibile, poi si stancano di quell’inutile pezzo di plastica e metallo con cui hanno giocato fino a quel momento e ne cercano un altro.
Non sono loro ad essere capricciosi. Siamo noi che non li educhiamo ad essere responsabili dei loro giochi e dei loro interessi.
Gli diamo pezzi di plastica e loro li trattano come tali: quanto varrà un pezzo di plastica? Non molto, tutto sommato. Loro non fanno fatica a rinfacciarlo, con la loro perpetua insoddisfazione, che fa andare “fuori dai gangheri” il tentativo di qualunque genitore di “accontentare” i pargoli.
La domanda da farsi sarebbe, però: qual è l’ultima volta che i nostri figli hanno partecipato attivamente alla realizzazione di un gioco? Quando hanno costruito da sé il motivo del proprio divertimento, insomma?
Il gioco è, per il bambino, la prima e principale fonte d’apprendimento, per cui è naturale che il suo approccio al gioco condizionerà, in futuro il suo approccio allo studio, al lavoro, alla vita.
E se la sua abitudine è unicamente quella di scartare giocattoli già fatti, la sua principale attitudine sarà quella di aspettarsi di trovare tutto fatto. Mettersi in prima persona a fare qualcosa per risolvere un problema che lo riguardi sarà l’ultima delle ipotesi che si affaccerà alla sua mente. La considererà un’ipotesi curiosa, strane, di difficile possibilità risolutiva; quindi, tenderà, se non a scartarla, quanto meno a considerarla unicamente come extrema ratio. L’ultima della lista, da affrontare con coraggio solamente nel caso in cui nessuna delle altre opzioni abbia sortito gli effetti sperati. Allora, però, potrebbe non sortire ugualmente gli effetti tanto desiderati: se un bambino non ha mai sperimentato la fatica, che trova compimento solo parziale nella soddisfazione finale, è realistico pensare che i suoi tentativi di autonomia saranno, quanto meno, più arrendevoli e deboli.
Non essendo abituato alla “sconfitta”, a risultati imperfetti (perché è abituato ad avere tutto perfettamente identico ai giocattoli dei compagni), probabilmente, dopo un paio di tentativi getterà la spugna, incapace di prendere in mano la situazione o prendere ulteriori iniziative personali.
Forse, una foto, da sola, è in grado di spiegare meglio tutto ciò. Questa foto. Ricordo bene quando fu scattata e perché. Nel suo francese scolastico, fu Ali a chiedermi di farla, dicendo che voleva una foto con la sua macchinina, che aveva fatto lui. E, come se non fosse stato sufficientemente chiaro, si mise in posa, badando con grande attenzione a mettere la sua opera in favore di camera, per assicurarle la migliore inquadratura possibile. E, dopo lo scatto, volle assicurarsi del risultato. Ne fu molto soddisfatto. Probabilmente una reazione del genere non sarebbe spontanea, in un bambino occidentale. Non si tratta di essere viziati. Anche genitori attenti a non viziare i figli dovrebbero affrontare questo problema: l’attitudine a non impegnarsi in prima persona nella fase creativa e preliminare del gioco. Per chi non ha niente, invece, anche procurarsi un gioco diventa un gioco, che contribuisce a incrementare la loro abilità manuale, a fronte della quale, probabilmente, nessuno di noi è in grado di competere, perché siamo troppo abituati ad avere qualcosa (sempre meno qualcuno) che lavori al posto nostro.
Lavatrice, lavastoviglie, telefoni. Tutto diventa intelligente. Noi, nel frattempo, però, stiamo diventando incapaci di farci protagonisti della nostra vita, entrando in contatto direttamente con ciò che è la fonte del nostro divertimento. A fronte di una virtualità capace di creare interattività, forse, dovremmo riappropriarci della bellezza di un contatto diretto e senz’alcuna mediazione anche con tutto ciò che è ruvido, infido, sporco, puzzolente. Dovremmo lasciarci toccare dalla vita, senza filtri davanti, anche se questo significa esporci alla vulnerabilità. Ma anche riappropriarci della vita reale, che passa attraverso tutte queste cose: le mani sporche di terra, i calli causati dalla zappa, i tagli sulle dita per un intervento impreciso.
Non tutto ciò che è “old style” è meglio delle novità. Non sono contro il progresso. Tuttavia, forse dovremmo riscoprire quanto può essere educativo impastare con le mani, giocare con la sabbia, sperimentare materiali diversi, costruire. Perché ciò che stiamo togliendo ai nostri ragazzi è proprio questo: essere protagonisti del proprio divertimento, partecipando, in prima persona alla progettualità di ciò che lo origina. Questo processo permette loro non solo di sentirsi più coinvolti, ma anche di decidere in prima persona e, in ultima analisi, di raggiungere una personalizzazione elevata dell’oggetto realizzato alla fine. Chiunque sa che ciò che rende diverso l’artigianato dalla produzione in serie è proprio la rarità dei manufatti: ciò che è realizzato manualmente è magari imperfetto, impreciso, forse più grossolano. Ma è irripetibile. Non ce ne sarà un altro uguale. Proprio questo ne aumenta il valore. Oltre che il prezzo!
A fronte della fatica occorsa, dell’impegno profuso, del percorso di realizzazione che ha visto svolgersi sotto i suoi, delle decisioni che è stato costretto a prendere durante la costruzione, delle soluzioni che ha trovato per far fronte ai problemi, il bambino guarderà senz’altro i suoi giochi con occhi diversi. Probabilmente, li apprezzerà di più. Perché, anche se si tratta, come nel caso della macchinina di Ali, di pezzi di fil di ferro, tappi di bottiglia e lattine di bibite usate, lui ne conosce la storia, ne ha percorso ogni dettaglio alla ricerca del modo migliore per realizzare quel suo progetto di creare una macchina, come piaceva a lui.
Quel “piccolo miracolo” racchiude in sé così tanti ricordi che il suo valore, ai suoi occhi, è schizzato alle stelle, tanto che gli risulterebbe insopportabile dirgli addio, pur avendo un valore economico probabilmente inferiore a zero.