Preludio. Tre passi e un salto
Dall’alto o dal basso: c’è sempre una prospettiva dalla quale spiccare il volo. Molti han già messo mano dall’alto. Noi, sedotti da una cristologia mendicante, scegliamo il basso: la piazza, le strade, i muretti. Il vociare confuso della gente. Sciogliamo le vele da questo porto, una sfumatura della cultura che necessita d’essere scrutata da una pastorale della fede.
Scrutata dopo averla abitata.

Tuttavia abbiamo amato il deserto.
All’inizio sembra fatto di nient’altro che vuoto e silenzio; ma solo perché non si dà ad amanti di un giorno. Persino un semplice villaggio del nostro paese è ritroso. Se per esso non rinunciamo al resto del mondo, se non entriamo a far parte delle sue tradizioni, delle sue usanze, delle sue rivalità, nulla sapremo della patria ch’esso costituisce per alcuni. Meglio ancora, l’uomo che, a due passi da noi, si è murato nel suo chiostro e vive in base a norme a noi ignote, quell’uomo emerge veramente in solitudini tibetane, in una lontananza in cui nessun aereo mai ci deporrà. Inutile andare a visitare la sua cella: è vuota! L’impero dell’uomo è interiore. Così il deserto non è fatto di sabbia, né di tuareg, né di mauri, sia pure armati di fucile(1).

1. Il comfort dei gradini: moderne carrozze di prima classe
messaFaccio forza alla porta e, impacciato, m’inabisso dentro il tempio. Il vuoto della navata fa echeggiare una voce silente e solenne: «In nomine Patris et Filii et Spiritui Sancti». Chi l’attacca veste mantelli di porpora, reca l’anello d’oro al dito, un zucchetto a custodia della testa e un lungo pastorale come evocazione di greggi e armenti da condurre. L’incenso ne rabbuia un po’ il viso, il gregoriano ne altera i lineamenti, il segretario composito ne programma gli spostamenti. Sui banchi – nettati per l’occasione – tredici anziane signore (tre di loro tutte prese nel recitare giaculatorie inginocchiate), sette uomini tra loro confabulanti e una dozzina di giovani ministranti prenotati e addestrati per l’occasione. Sul sagrato del Tempio, un uomo maestoso, pasciuto e impeccabile negli abiti attende la fuoriuscita del porporato. Salvaguardando un Mercedes 4.0 siglato SCV. Era barocca la chiesa di Praga che visitò Camus. Ma il Dio era lo stesso? «Il Dio che lì si adorava era quello che si teme e si onora, non quello che ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del mare e del sole. Da quel Dio l’uomo s’allontana» (A. Camus, La morte felice).
Abdico la postazione per una leggera nausea alle narici – causata da un incenso dall’aroma troppo odoroso – e bivacco sui gradini della chiesa. Giovinezza tra centinaia di giovinezze. Contrariamente alla situazione delle navate, arrabattare un posto è impresa titanica. Oltre che audace e provocatoria: tengo una croce appesa alla felpa della Kappa. Segno di un sacerdozio cercato. E creativo.
In fronte a me l’obelisco Flaminio di Piazza del Popolo, 24 metri d’altezza, proveniente da Eliopoli dove sorgeva davanti al Tempio del Sole. Dietro di me le note lenti, solenni e forti del canto gregoriano che la chiesa fatica a trattenere. Tutt’intorno voci giovani. Volti giovani. Discorsi giovani. Ammassato tra loro, mi lascio accompagnare e travolgere da torrenti di parole. Una telefonata m’incuriosisce:

Sì, io sto qui, tu dove sei? (…) Ah, e dopo dove vai? Sì, forse vengo anch’io, ma tu ci sei? Sì, domani io sto qua, tu vai via o stai qua? (…) Se vado via chiama che ti raggiungo. Se no ti chiamo io per dirti che non vengo e che è inutile che mi chiami. Beh, magari ti telefono se decido che torno, se no se decidi che torni chiami tu.

Che significa?
punkLi guardo: scarpe slacciate, mutandomi in bella evidenza, jeans a vita bassa. I gradini come riproduzioni fedeli delle stanze della Nasa: Ipod della Apple ultima generazione, digitali Canon da 8.0 pixel, l’Iphone 3G. Per i meno avveniristici gli eterni Nokia: dal Nokia 3310 robusto, economico e con soli tre giochi incorporati al Nokia E63: il mondo a 16 milioni di colori da tenere in mano. Sono gli «iperconnessi tecnoager»(2). Tra sms, mms, emoticon e istantanee accoppiati, l’aria pesante fa presupporre che qualcuno arrabatti hashish e marijuana. Gli spinelli s’offrono a basso prezzo. Un po’ come le merci all’outlet. Inseparabili dalle bottiglie: Campari, Martini, Tequila. Declinano i cocktails come un tempo si faceva con i precetti capitali, i vizi e le virtù della dogmatica cattolica. O con le tabelline dell’elementare aritmetica: Balalaica e Bambolo, Barracuda e Black and White, Old Havana, Golden Drink e Margarita. Pussyfoot, Tequila Sunrise e Vodka Martini. Qualcuno è triste: giunge voce che a tre metri sopra il cielo siano in troppi. Già si prospetta di abitare a quattro metri sopra il cielo. Chissà se rimarrà qualcuno a custodire la terra (Gen 1,28-30). Al di là delle Alpi consegnano i quotidiani porta a porta e si svegliano all’alba per un giro di volantinaggio. Fanno i babysitter per i vicini di casa, i commessi al supermercato. Navigano in rete per cercare lavoro. O chiamano un call-center specializzato.
Dalle Alpi in giù esiste la paghetta.
Da dietro la colonna lo stereo amplifica e allarga i suoni. Lo speaker legge la formazione proclamando metà del nome e aspettando la risposta dei fedeli. «Simoneeee…». E tanti in coro: «Perrottaaaa!!!» «Per i nostri fratelli che vivono nella pace eterna…» E le vecchiette: «Ascoltaci o Signoreee!!!» Nasci in Egitto: sei musulmano o, in casi limite, cristiano copto. Nasci a Bergamo: sei dell’Atalanta oppure, per eresia di comodo o eredità paterna, del Milan. L’affiliazione sportiva ha una connotazione fondamentalista: non ammette la conversione. Solo il proselitismo. Si può smettere di praticare il tifo, diventare agnostici, passare la domenica al cinema.
Ma non è lecito cambiare curva.
Se i gradini sono occupati, si cambia habitat. Si migra volentieri. Forse in cerca delle anime, molto più lente dei piedi frettolosi: la banda, il muretto, la squadra, la compagnia, il gruppo musicale, la piazzetta, le vasche del corso, la spiaggia, i concerti, il pub, la discoteca, la notte, l’automobile; gli spazi virtuali, la musica, il fumetto e Internet. Le Giornate Mondiali della Gioventù.
«Ite missa est»: e l’organo esplode in tonalità roboanti. Che si sovrappongono al dialogo-monologo negli Ipod con i Pink Floyd, gli Evi Metal e Madonna. O, fedeli alle italiche radici, Ramazzotti, Vasco Rossi e Carmen Consoli. Ma se c’è aria di sommossa, meglio Capareza.
Qualche istante e il porporato esce. S’apre lo sportello dell’auto nera. Entra silenzioso, colorato e mesto varcando ignaro quel mare di giovinezza che, inversamente al mare del Mosè profeta-pastore-condottiero, stenta ad aprirsi per facilitarne l’accesso. Nonostante lo sfarfallare della violacea talare.
In chiesa s’è proferito di Dio. Sui gradini s’è parlato dell’uomo. Vite separate sotto lo stesso Cielo?
The show must go on.

2. Il piccolo borghese di Courteline
Eurostar 9474 Roma Termini – Venezia. Campi di grano biondeggianti, la terra appena arata, squarci di girasoli vestiti a festa. Greggi, armenti e pastori. La statale veloce, le colline silenziose, i casali della Toscana coi loro seriosi cipressi. Nuvole passeggere, il colore rossastro del tramonto. Stormi d’uccelli neri. Lo scorrere dei binari sembra il volteggiare di un testo di storia dell’arte: le spigolatrici di Milet, le stiratrici di Degas, le ninfee di Monet. I girasoli di Van Gogh.
Nel vagone qualcuno sbadiglia. Altri dormono accovacciati al finestrino. S’oscurano i vetri per chiudersi alla luce. Chissà cosa direbbe il Piccolo Principe: non ci sono nasi schiacciati contro il vetro in questo vespro di fine ottobre. Tra le mani reggo un libro iniziato a leggere mille volte. E altrettante volte lasciato incompiuto: perché mi sapeva di pagine tra loro disordinate. Fotografa compagni, aerei e pianeti. Oasi e deserti. All’ultimo capitolo racconta di uomini.

Ci sono in Europa duecento milioni di uomini che non hanno alcun senso e che vorrebbero nascere. L’industria li ha strappati al linguaggio delle stirpi contadine e li ha rinchiusi in quei ghetti enormi che somigliano a stazioni di smistamento ingombre di serie interminabili di vagoni neri. Dal fondo dei quartieri operai, essi vorrebbero essere risvegliati.
Ve ne sono degli altri, presi nell’ingranaggio di tutti i mestieri, ai quali sono negate le gioie del pioniere, le gioie religiose, le gioie dello scienziato. Si è creduto che, per ingrandirli, bastasse vestirli, nutrirli, rispondere a tutti i loro bisogni. E in essi si è fondato, a poco a poco, il piccolo borghese di Courteline, il politicante di villaggio, il tecnico chiuso alla vita interiore. Vengono bene istruirli, forse; ma non vengono più coltivati. Si fa una ben misera idea della cultura, colui che crede ch’essa riposi sulla memoria delle formule. Un cattivo allievo di istituto tecnico la sa più lunga, in fatto di natura e di leggi, che Descartes o Pascal. E’ capace di avere gli stessi procedimenti dello spirito?
Tutti provano, in modo più o meno confuso, il bisogno di nascere. Ma ci sono soluzioni che ingannano(3).

Rammento quel domenicano orante: c’era una presenza densa. Quest’uomo non era mai così uomo come quando era là prostrato e immobile. In Pasteur che tratteneva il fiato sopra il suo microscopio, c’era una presenza densa. Pasteur non era mai così uomo come quando analizzava. Allora s’affrettava. Allora, anche se immobile, s’inoltrava a passi da gigante e decifrava la vastità. Così pure Cezanne, immobile e muto, dinanzi al suo abbozzo, era di una presenza inestimabile; non era mai così uomo come quando taceva, provava e giudicava. Allora la sua tela diventava per lui più vasta del mare. Ma quel treno…! «A tormentarmi non sono né quelle cavità, né quelle gibbosità, né quella bruttezza. Mi tormenta che in ognuno di questi uomini c’è un po’ Mozart, assassinato. Solo lo Spirito, se soffia sull’argilla, può creare l’uomo»(4).

I casali della Toscana e la locanda di Emmaus (Lc 24, 13-35). Su binari che corrono veloci. Anche là si sbadigliava, ci s’annoiava, s’era tristemente esistenti.

Essi vogliono assordare la desolazione della loro solitudine con le dicerie e colmare il vuoto del cuore con chiacchiere, e così danno a Dio l’opportunità di mischiarsi nel discorso. Spesso la grazia opera in noi, anche quando fuggiamo da essa. Talvolta Dio parla già con noi, quando pensiamo di trattare solo in silenzio di lui, il Dio morto. Ecco avvicinarsi un estraneo sulla strada. E’ il Signore! (…) Certo, egli accompagna molti lungo la via senza che se ne accorgano(5).

Innalzato da terra, attirerà tutti a Sé. Parola Celeste annotata negli archivi dell’Evangelo (Gv 12,32). Perché la vita non avanza per dei colpi di volontà.
Ma per un’attrazione.

3. L’abbazia di San Galgano: dove il tetto non chiude al cielo
sangalganoVal di Merse: viandanti, pellegrini e incrocio di sangui. Siamo al confluire di due strade, storicamente ed economicamente cruciali: la Massettana che collega Siena con il Mare accarezzando le colline Metallifere e la Strada Maremmana che aggancia il cuore della Toscana con la bellezza periferica di Grosseto. Fra Monticano e Chiusdino, in una terra dalla bellezza selvaggia e incontaminata, secoli addietro eressero un’abbazia in memoria di san Galgano, al secolo Galgano Guidotti. Una figura leggendaria, adombrata nel mistero e nella simbologia.
Santo per la Chiesa.
Un’abbazia con pianta a croce latina a tre navate con 16 pilastri. L’abside orientata ad est e otto valichi per parte nel braccio maggiore della croce, sul quale si aprono le due campate con pianta rettangolare. Con i suoi lineamenti gotico – cistercensi, nel XIV^ secolo raggiunse prestigio e potenza grazie a privilegi e donazioni ricevute. Dopo l’interdetto contro Siena del 1507 ad opera di Papa Giulio II, di lei rimase la bellezza di un rudere grandioso e mistico. Fino ad essere preda dell’incuria dell’uomo. Che ne vendette le lastre di piombo facenti funzione del tetto. Esponendola alle bizzarrie del tempo.
Meteorologico e cronologico.
Ma forse è proprio quel tetto mancante a tramandarne la bellezza primigenia. Naufragando tra magia e mistero. S’avverte quasi un tonfo indietro nell’oscurità di quel Medioevo che l’ha partorita, ingegnata, elevata. Al viandante curioso e mistico, quel vuoto verso il cielo sembra rispolverare la melodia della Regula monachorum di Benedetto da Norcia:

Obsculta, o fili, praecepta magistri, et inclina aurem cordis tui, et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple, ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras. Ad te ergo nunc mihi sermo dirigitur, quisquis abrenuntians propriis voluntatibus, Domino Christo vero regi militaturus, oboedientiae fortissima atque praeclara arma sumis.

Le proporzioni, i materiali, l’assenza del tetto, il rosone vuoto, il silenzio della piana desolata, il cielo in fronte: avvolti e storditi. E quelle linee esaltate nella loro articolazione ed eleganza fino a perdersi nell’infinito del cielo.
Come a Melmose e Keso in Scozia. O a Cashel in Irlanda.
I Vangeli attestano che pure Cristo contemplava le belle pietre del tempio (Lc 21,5). Perché dentro perimetri d’architettura da sempre l’uomo concentra la massima sintesi d’arte e di bellezza. Di pittura, scultura e decorazione. Di musica, canto e poesia. Di danza, teatro e profumo. Dei luoghi non-luoghi: quasi delle porte d’accesso, dei luoghi di passaggio. Forse un’interpellanza a salire aggrappandosi per cercare l’essenziale. L’Essenziale. Oltre lo spazio, oltre il tempo, oltre l’ordinaria quotidianità. Oltre la distrazione. Per scrutare da dentro le navate il volo delle rondini: simbolo di libertà.
E farsi segregare dall’Eterno.

La nostra vita è dominata ormai da un ritmo frenetico, dall’ansia di possedere, di far carriera, di dominare, riapparire, soprattutto di guadagnare. Il ritmo della nostra vita può impedirci di godere le cose belle che non costano nulla. Francesco d’Assisi rimaneva per ore a contemplare il volo delle rondini, simbolo di gioia e di libertà. Nessuno è mai riuscito a mettere una rondine in gabbia. Il ritmo della nostra vita può impedirci di accorgerci degli altri. Può spegnere la tenerezza che è la poesia dell’amore. Il ritmo della vita moderna può attenuare persino il gusto delle cose buone(6).

Teresa d’Avila, quando preparava da mangiare per le sue consorelle, era intenta alla buona cottura di un piatto e nello stesso tempo concepiva splendidi pensieri su Dio. Esercitava allora quell’arte di vivere che è l’arte più grande: gioire dell’Eterno prendendosi cura dell’effimero.
Tra le navate di quel rudere mistico abita una bellezza commovente e magica ad evocazione di un passato grembo di dura violenza, d’ingiustizie e sopraffazioni verso l’umile del quale si dovea prendere le difese. Ma grembo pure di Galgano, precursore di quel Francesco di Bernardone che una spallata formidabile diede alla società dell’epoca. E alla chiesa.
In quell’anfratto della Val di Merse il Cielo sembra smarrirsi sposandosi con la terra. E la terra sembra allungarsi cingendosi al Cielo.
Quasi che la Bellezza, per l’homo distractus, fosse una forma di carità.

4. Per concludere

Tre passi. E un salto.

– Ha sentito?
– Che cosa?
– Il gallo!
– Allora… Allora…
Ma certo, imbecille, allora è la vita(7)

 


Note

(1) A. De Saint-Exupéry, Terra degli uomini, Mursia, Milano 1968, 85-86.
(2) www.corriere.it, 18 novembre 2008.
(3) A. De Saint-Exupéry, op. cit., 172-173.
(4) Ibidem, 181.
(5) K. Rahner, Croce e risurrezione. Preghiere e riflessioni sulla Passione e la Pasqua, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 49-50.
(6) D. Clauser, Francesco d’Assisi, Il Margine, Trento 2006, 12.
(7) A. De Saint-Exupéry, op. cit., 156.

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