Un viaggio per chi non ha paura di varcare confini spazio – temporali arditi e inconsueti. Su ali d’aquila, ma coi piedi ben piantati per terra: il viaggio de L’imbarazzo di Dio ha preso il via da Cogollo del Cengio (VI), con una serata straordinaria, in cui il libro è diventato un mero pretesto, si è amalgamato tra parole, suoni, musica ed emozioni, fino a dissolversi. Ma solo dopo aver riempito i cuori della volontà di essere protagonisti della propria vita e farne un capolavoro: senza volontà di resa e con la necessità di condividere con gli altri un pezzo di cammino.
Un gallo, d’evangelica memoria, ci ha accompagnato, dall’inizio, quasi a ricordarci che la prima caratteristica chiesta agli uomini d’oggi, ma soprattutto ai cristiani, è d’essere svegli. A qualcuno è la strada ad aver fatto da madre: e ai suoi insegnamenti non si scappa. Ma nessuno può permettersi di passare la propria vita in dormiveglia, rifiutando categoricamente di lasciarsi interrogare dalla Vita, che non cessa un attimo di metterci in imbarazzo, tramite quegli scherzi di pessimo gusto, fatti da un Dio che ci ama e ci viene a cercare, che ci ribaltano idee e prospettive, impedendoci di raggiungere il tanto agognato “quieto vivere”.
Lentamente, inesorabilmente, la chiesa si riempie fino ad essere stipata: i posti seduti sono esauriti e si approfitta di qualche cantuccio per sedersi; i ritardatari dovranno accontentarsi dei posti in piedi, in fondo. Ma decidono ugualmente di fermarsi, di lasciarsi coinvolgere, di accogliere la sfida.
In un silenzio irreale, con le luci abbassate, la serata inizia, con un lettore che colpirà anche l’autore per la sua meravigliosa capacità di dare peso a parole e silenzi, fino a far sembrare che abbiano forma e vita. Gli astanti si lasciano incantare e introdurre, attraverso la lettura del preludio, nel clima richiesto dalla serata.
Una chiesa gremita si trova a far da cornice a una festa di sguardi: l’attenzione non s’interrompe, quando si entra nel vivo, con la presentazione di un Dio inatteso e creatore di stupore, capace di stupire e di mettere a disagio. Il Dio di Maria, di Giuseppe, di Simone il pescatore, di Giovanni Falcone: dalla Palestina di 2000 anni fa alle strade di Palermo, è lo stesso Dio che misura i Suoi passi coi nostri.
Tutto parte sempre da un incontro, da una curiosità che, se seguita, spinge fuori, oltre il proprio sé fino al confine del conosciuto. Per questo, solo i più temerari, come Cristoforo Colombo, accettano la sfida della ricerca della verità – che molti altri si rifiutano di intraprendere “per la paura di trovarla” , come sottolinea Maximilian Kolbe -.
L’incontro prende una svolta diversa, ancora più imprevedibile: diventa festival del perdono e della riconciliazione, che ci arriva tramite la sobria, maremmana simpatia di Claudia e Irene. Una storia che ha dell’incredibile, che a raccontarla si mastica amaro tanto sembra irreale: lascia di stucco per la normalità di cui si è rivestita agli occhi delle protagoniste, ma che non cessa di rivestire i panni della trascendenza, agli occhi di chi guarda. Il fatto originario è presto detto, forse uno dei tanti episodi di banalità del male che incrocia quotidianamente i nostri occhi. Un ragazzo, ad un posto di blocco, perde la testa e riempie di botte due carabinieri: uno perderà un occhio, l’altro morirà mesi dopo. Claudia è moglie di quel carabiniere ucciso, Irene è la madre dell’assassino. Così si presentano. Insieme, come amiche. Perché solo nel nome dell’amore si può ricostruire quello che è andato perduto e che tutti danno per finito e spacciato. Ma che, per chi non si arrende all’evidenza, può diventare il punto di partenza privilegiato per riprendere il filo di una vita spezzata e che fatica a ritrovare senso e motivazioni. Contro ogni logica umana, in modo quasi insondabile, si fa spazio la Speranza: insieme, ogni strada è meno faticosa. Nel nome dell’amore, è possibile riscoprire spiragli di luce, a cui riaccendere il lume, persino nelle notti più buie.
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»
(I. Calvino, Le città invisibili)
Questo potrebbe essere il commento scritto dopo il loro racconto. Di fronte a una testimonianza come questa, viene inevitabile ammirare il genio femminile, capace di intessere relazioni oltre ogni logica speranza, con quell’arte di cui il cucito, d’inenarrabile memoria, si fa metafora concreta: richiede ingegno ben diverso da quello dell’architetto, vede la necessità di pensare col cuore, che è l’unica soluzione che consenta di oltrepassare gli ostacoli, anche quando nessun essere umano vedrebbe una via d’uscita. Tra le grandi donne capaci d’amore, impossibile non citare Maria di Magdala e Madre Teresa: la prima, incapace di cedere alla morte del Maestro, si aggrappa alla speranza e in quella ritrova la voce che risveglia la coscienza e fa vedere anche gli occhi; la seconda, pur tra i dubbi umanissimi che l’hanno accompagnata, resta con la certezza che, amando Dio e sentendosene amata, si sentiva pronta a rifare la stessa vita aspra e semplice che ha condotto per anni e anni.
Una scommessa che vale la pena di fare. Come suggeriva già Pascal. Non solo per il cervello, ma soprattutto per necessità di cuore, come sottoscrisse Dostoevskij:
«Non c’è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c’è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».
(dalla lettera a N.D.Fonvizina, 1854)
La scommessa di una vita è sempre una scelta quotidiana, perché, fino a che il vangelo non si fa carne e sangue, rimane solo carta buona per ingiallire con il tempo che passa. Un cappellano di stanza al Due Palazzi sa di cosa parla quando si tratta di criminali, ladroni moderni, ancor più pronti del buon ladrone evangelico a rubarsi il proprio posto in Cielo con un lampo di tenerezza. Più lesto dei discepoli di Emmaus, in una situazione molto più difficile della loro, il buon ladrone passò alla storia per aver riconosciuto Re dell’universo chi non aveva che una corona di spine, un seguito sparuto di alcune donne ed un ragazzo ed era ricoperto d’insulti invece che d’oro. Allo stesso modo, tanti moderni ladroni, con disarmante semplicità, si rendono disponibili ad accogliere il Figlio dell’Uomo con quel cuore pronto che riesce ad intenerirei cuore del Cristo e a fari fiorire la grazia, con sovrabbondanza, proprio là, dove ha abbandonato la colpa e la perdizione, e nessun uomo sano di mente scommetterebbe un soldo bucato.
L’imbarazzo prende, sul finale, il volto di Vincenzo, sagrestano di don Marco, che ne racconta la storia con sconcertante realismo: dalle cicatrici di un passato segnato da solitudine ed abbandono, al desiderio di riscatto. Passando per un cuore profondamente buono – con cui fare i conti quotidianamente – e capace d’impartire lezioni di profonda teologia spicciola, dall’alto della sua terza elementare. «Celebrare è dare un senso, anche a quello che non ne ha»: il rischio è dimenticarsene, vale a dire farlo senza «quella carne dentro cui batte la Grazia».
L’immagine di chiusura è quella dei canti dei detenuti durante la Messa: la musica, come veicolo di bellezza per parlare al cuore dell’uomo. E anche in quella serata a Cogollo, tramite il coro Giovani Voci, la musica non è stata solo un intermezzo, ma certamente qualcosa di più: il veicolo per creare un’occasione d’incontro e lo strumento migliore per scavare tra le viscere dei più profondi abissi dell’animo umano. Quelli entro cui anche le parole si trovano in imbarazzo e solo le note riescono a farsi spazio, con quella delicata tenerezza, che è propria di ciò che sa farsi profondo nelle intenzioni, ma impalpabile come una carezza accennata su una ferita troppo fresca per essere toccata.
Tutto l’evento si è svolto nella cornice di una parrocchia, che, come una casa, ci ha aperto le porte: del cuore, innanzitutto, con l’accoglienza familiare di don Luigi Gatto, e una squadra formidabile che ha organizzato ogni cosa nei minimi dettagli, dalla pubblicità alla realizzazione finale.
Alla fine di questa “partenza-sprint”, il cuore si riempie di gratitudine, perché la consapevolezza, sempre nuova e sempre la stessa, è quella che la Vita è un cammino meraviglioso, anche per le sue avversità. Ed è possibile attraversare anche i momenti più bui, se si accetta la compagnia di una comunità piena di difetti, ma che, pur traballando, prova a raggiungere la stessa meta!
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Quando la divisa non basta
Semplicemente donne. Ben più degli uomini
Lasciate il mondo in mano alle donne. Fiorirà
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