doloreIl dolore non avrebbe senso di esistere, logicamente parlando. Perché? Molto semplice: quante persone, al mondo, soffrono la fame? Quante perdono il lavoro? Quante sono malate, stanche, oppresse, sfiduciate?
E noi soffriremmo forse per ciascuna di esse? Siamo sinceri. Non è così, non può esserlo! Per quanto ognuno abbia una diversa sensibilità, nessuno – probabilmente – è in grado di soffrire per ogni persona. Il dolore – in senso astratto – non ci tocca davvero, personalmente, non ci punge nel vivo, non ci fa venire i brividi di paura, non ci fa piangere di terrore, no. Non sono i numeri a farci avvertire l’entità di una catastrofe, sono le storie e i volti a farci percepire la drammaticità di una tragedia. Basti pensare all’incredulo orrore che proviamo di fronte a storie di cronaca nera che coinvolgono i bambini. Siamo inorriditi, shockati, arriviamo alle bestemmie, alle minacce, alla violenza (se non fisica, almeno verbale); e, in fondo, non facciamo altro che sprigionare il lato protettivo che è in noi, quello che sviluppiamo, del resto, anche (e soprattutto) coi nostri figli e con le persone che più ci stanno a cuore.

Eppure, continuiamo a rimanere ignari dei figli di altri, di drammi – se vogliamo – quantitativamente (e oggettivamente), maggiori, ancora più urgenti da risolvere, in quanto molto più antichi nelle loro origini: bambini sfruttati nella tratta degli organi, lavoro minorile, bambini senza infanzia, bambini abbandonati, di cui sono piene le favelas brasiliane o i mercati di tanti stati africani. Sono drammi antichi, quasi atavici, ormai entrati nella categoria dell’abitudine, quindi più difficili da risolvere. Ma non è la difficoltà a spaventarci, è solo e semplicemente che “non li sentiamo”. Questi drammi sono gravi, ma non ci riguardano davvero, sono solo cifre, pagine di cronache, ma nulla che ci tocchi davvero. La realtà è che quello di cui sentiamo la mancanza è il volto. Sono senza volto. Per questo non ci interrogano.
Per capacitarci dell’importanza di questo riconoscimento reciproco nel volto, basti pensare ad un caso-limite: alla guerra. In ogni combattimento è preclusa con ogni mezzo la visione del volto nemico. Dai colori tribali applicati in faccia, che confondono e vogliono spaventare il nemico, all’elmo medievale, fino alle forme di guerra attuali, fatte in carri armati, da elicotteri o altri mezzi ancora… la somiglianza resta nell’intenzione di fondo: allontanare il soldato dal volto. È il volto che fa essere umani, è il volto che ci parla di noi, delle aspirazioni, delle aspettative, è il volto che scatena simpatia o antipatia, ma anche tenerezza e avversione.
E così, ecco perché le malattie curate da Telethon, tanto spesso, non provocano altro che pietosi sorrisi e falso buonismo, che presto finiscono – pure quelli – nel dimenticatoio, insieme con “carriolate” di buoni propositi governativi e istituzionali. Ma tutto questo è, in fondo, normale. Sarebbe, forse, stupefacente il contrario.
Purtroppo anche la Chiesa, spesso, si ritrova a parlare un linguaggio che è sbagliato, pur con preoccupazioni comprensibili e oneste. Ma il suo linguaggio risulta asettico, formale, tecnico. In una parola: poco umano. Ma “Dio non è presente dove è assente il cuore. E non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano”(1). Credo che a questo piccolo pensiero bisognerebbe appellarsi sempre, prima di ogni conclusione affrettata e di ogni giudizio avventato. Prima di tutto c’è l’uomo, che sbaglia, magari, ma che resta pur sempre un figlio di Dio. Non posso permettermi di aggredire (o umiliare) un uomo, anche fosse per un’idea giusta. Nessuna idea può asservire l’uomo, nulla che renda schiavo un uomo può renderlo migliore. Ma ciò che lo rende più libero e più umano, questo va certamente inseguito in quanto bene per l’uomo.
C’è nel mondo, dunque, tanto dolore e tanti dolori. Soprattutto, ci sono tante persone che soffrono. Eppure, noi non soffriamo per loro e con loro finché non li sentiamo a noi vicini; ed è una vicinanza che non è solo di tipo fisico o geografico, è qualcosa di più. Basti pensare come cresce in fretta, e in modo relativamente facile, l’interesse per qualche angolo povero del mondo quando qualche missionario lascia le nostre comunità. Diventa un volto amico tra volti ignoti. E dalle sue parole avvertiamo le loro storie, e anche i volti sconosciuti diventano significativi.
Ma torniamo a noi, a qualcosa di ancora più vicino e tangibile. Quanti neonati prematuri affollano le terapie intensive degli ospedali anche solo d’Italia: quanta attesa, quale angoscia attanaglia i genitori, per cui il lieto evento è sopraffatto dalla preoccupazione che il piccolo “ce la faccia”! Ma non ci pensiamo mai. Per noi è normale che un bimbo nasca sano, mamma e bimbo siano dimessi subito e si godano insieme la felicità nel nido familiare. Sono tante le famiglie in cui non è così. E non ne siamo toccati. Lo siamo soltanto se capita a qualcuno intorno a noi: parenti, amici, a volte anche conoscenti. Perché, nonostante tutto, la nostra capacità di farci prossimi al dolore altrui non è necessariamente proporzionale al tempo di conoscenza e neppure all’intensità di un rapporto. A volte, si scatena una sorta di “affinità elettiva”, una “simpatia”, sincera e gratuita, che provoca benevolenza ed empatia verso le emozioni ed i sentimenti dell’altro, che li fanno quasi assomigliare all’essere nostri. Per cui, pur se poco conosciuto, pur se distante fisicamente, quel volto, quella persona e, di conseguenza, quel dolore ci diventano in qualche modo “familiari”, parlano al nostro cuore a tu per tu e lui si lascia affascinare da quel linguaggio muto.
Alle volte, non ci sono spiegazioni specifiche sul perché riusciamo a comprendere o meno un dolore o una situazione. Come avviene nella quotidianità: conosciamo tante persone, incrociamo tanti volti, ma sono pochi quelli che ci rimangono nel cuore.


NOTE
(1) – I baci non dati, Ermes Ronchi, Paoline, 2007

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