Approfittando dell’approccio filosofico del Prologo Giovanneo, Vangelo festivo dell’Ottava di Natale, la Prima Lettura, tratta dai Proverbi, mette in campo la Sapienza divina, colta nel suo atto creativo. L’idea di una Sapienza antecedente e contemporanea alla Creazione significa che, quanto Dio fa, è sempre il meglio possibile. Come dice il filosofo Leibniz, “Dio crea il migliore dei mondi possibili” ed in questo c’è anche tutto il rischio che accetta di creare l’uomo a sua immagine e somiglianza, con la sua libera volontà.
Abbiamo quindi, sia nella Prima Lettura che nel Vangelo, la coesistenza della tematica della creazione, quindi l’inizio del Tutto, che si perde nella notte dei tempi, trattato in concomitanza con la ri-creazione, che ha luogo nella ricomposizione della relazione dell’Uomo in Cristo, avvenuta storicamente in un momento ben preciso, riportato con dovizia di dettagli storici, geografici e politici dai sinottici. Queste letture, al primo impatto appaiono quindi, forse, un po’ complesse, ma il principio sotteso ad esse è, per dirla con le parole di S. Bernardo da Chiaravalle, che il semel (una volta sola) porta in sé il semper (per sempre)*. Nell’intera liturgia cristiana, i due piani, orizzontale e verticale, paradossalmente, sussistono e si compenetrano: mentre celebriamo ciò che avvenne in un fatto, nella Persona di Gesù («il Verbo si fece carne»), noi ci facciamo strumento, affinché ciò avvenga di nuovo (nell’Eucaristia), in attesa di poterlo vedere di nuovo, “faccia a faccia”, così come Egli è. La Sapienza si presenta, come nel monologo di una pièce teatrale, come prodotto generato da Dio, prima ancora di accingersi alla Creazione del mondo, illustrata efficacemente, come se si trattasse di un Artista all’opera, che, con entusiasmo, passione e cura per il dettaglio, poco alla volta, appronta ogni cosa, fino a giungere all’Opera finita. «E Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,10): Dio, da subito, si accorge che ciò che è generato con bontà, porta bontà.Non sempre i nostri occhi sono limpidi a sufficienza per poter vedere nelle cose la bontà e rimandare il nostro pensiero, il nostro sguardo ed il nostro grazie al Sommo Architetto. La Bellezza non passa mai inosservata: difficile rimanere indifferenti, di fronte ad un tramonto che mozza il fiato con quella malinconica delizia di colori pastello che tinteggiano il cielo di rosso. Eppure, non sempre il nostro pensiero va all’Autore di quelle graziose pennellate. Il discorso si fa ancora più impegnativo di fronte all’uomo: la teoria di riconoscerci figli di Dio non è nuova. Ma non sempre la applichiamo, di fronte a chi sbaglia. La figliolanza rispetto a Dio e la comune fratellanza tendono a sfumare, quando il peccato li nascondono ai nostri occhi e, più che la fede, è la speranza a vacillare. La speranza, che non a caso è virtù teologale perché in Dio è caparbiamente presente, che anche nel più cuore più mascalzone di questo mondo, possa esserci uno spiraglio in cui la Sapienza possa trovare spazio per condurlo, non a sé, bensì a Dio, che l’ha generata. San Giovanni rende giustizia alla profondità del significato storico, filosofico e teologico dell’Incarnazione. Se, da un lato, il Natale trova il suo senso più vero nella Resurrezione di Cristo (tanto che, inizialmente, la preoccupazione dei primi cristiani si accentrava, per lo più, intorno al kerygma dell’annuncio cristiano: passione, morte e Risurrezione di Gesù Cristo, Figlio di Dio), dall’altro, senza l’Incarnazione, non avrebbe potuto aver luogo la Resurrezione. Ecco perché, la prima kenosys (abbassamento, umiliazione) di Dio, è proprio quella di abbandonare “i cieli” e farsi spazio, nel ventre di una donna, attraversando, come ognuno di noi, le varie tappe della crescita. Nonostante fosse Dio, decise di apprendere come essere un uomo, perché anche noi ritrovassimo la “strada di casa”. Pur essendo un’espressione forte da pronunciare, che odora di eresia, «Dio si fece uomo, perché l’uomo si facesse Dio» sintetizza, con efficacia, S. Agostino (Disc. 371). San Paolo insiste sul concetto di primogenitura, tanto caro al popolo ebraico, identificato in Gesù il “nuovo primogenito” (non più il popolo ebraico, come privilegiato su tutti gli altri). Dice, di Cristo, che «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,15), stabilendo, così, la coeternità del Figlio e l’unicità del Gesù-Uomo, col Gesù-Dio. Di più, mettendo a confronto le tre letture, risulta chiara la stretta relazione trinitaria che presiede la creazione: Cristo è il Verbo, parola creatrice, con il potere di dare la vita ad una creazione che trasuda armonia, perché opera dell’Amore (lo Spirito Santo). Giovanni specifica ancora meglio il senso della venuta di Cristo, nella Natività: Gesù è Vita ed è Luce. Luce, che si fa spazio fra le tenebre, perché non sempre è accolta, quando richiede un “cambio di rotta” rispetto alla nostra abitudine e, magari ai nostri “comodi”, o quando ci espone magari a piccole e grandi persecuzioni, sul lavoro, in famiglia, tra amici, pur di restare fedeli al Vangelo. Non basta, infatti, contemplare la Luce, per potersi dire figli di Dio. Siamo chiamati ad aderire sempre più ad una imitazione di Cristo – quale paradigma supremo dell’uomo – a cui somigliare, per poter assaporare davvero il gusto di una vita vissuta in pienezza (che è la santità alla quale tutti siamo invitati, ciascuno nel proprio ambito).
[presente anche su www.solidando.net]
Rif: Letture festive della Domenica nell’Ottava del Natale, Rito Ambrosiano
*BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermo V de Diversis, 1