Ci è rimasto soltanto lo sguardo, tant’è che siamo ciò verso cui noi guardiamo. Dalla galera di un DPCM rimangono immuni soltanto gli occhi, le ciglia con le sopracciglia, le pupille: è ciò che mascherato non è. Tutto il resto è materia coperta dall’esimia mascherina, tant’è che più che di immunità di gregge varrebbe la pena parlare d’immunità di socialità: col volto mezzo coperto puoi fingere di non aver visto qualcuno, di non esserti accorto di qualcosa, puoi non salutare, ricambiare un saluto, dare un cenno d’approvazione o di diniego. Poi, qualora indossassi anche gli occhiali, saresti al top del nascondimento: bardato fino a (quasi) sopra i capelli. L’unico dettaglio contro il quale nulla può (ancora) una mascherina è lo sguardo: quel sorriso tutto da decifrare che, quando lo intravedi da sotto quel pezzo di stoffa, accende un qualcosa di magico in chi s’imbatte. Mi ha impensierito, ieri, un biglietto lasciato in bella vista sul cruscotto di un’auto in sosta: «Di occhi bellissimi ne è pieno il mondo, ma dei tuoi occhi è pieno il mio. Siamo nati per incontrarci nei nostri sguardi». La firma era un rebus di simboli, indecifrabili per i non-interessati ai lavori in corso nel cuore: d’altronde certi sguardi richiedono il diritto alla privacy per non doversi alzare pure loro la mascherina per troppo rossore. Ho provato ad immaginarmi la genesi di quel biglietto: un mi manchi scritto in forma creativa, un ti voglio bene a fare le veci di un ti amo, un semplice mi manchi per dire che, senza lei, era lui a mancare a se stesso. Poi la ricerca della macchina, il voltarsi attorno per vedere se qualcuno se ne stava in agguato, il lento allontanarsi pensando se qualcuno, anche solo per dispetto, sarebbe passato a rubare quel segreto. Il tutto nascosto sotto la seta di una mascherina. “Che tu faccia buon viaggio, bigliettino mio!” Fino a quando, magari, sarà arrivato un messaggio per dire che “proprio non me l’aspettavo. Mi hai fatto battere il cuore!” Più che finito, il viaggio si rilancia, la storia matura, l’amore resiste appeso a quegli occhi. Resiste al tempo della grande deportazione da Covid.
Quel bigliettino scorto sul cruscotto mi ha fatto venire alla mente il fagiolo che la maestra, in prima elementare, un giorno ci ha affidato come compito per casa a noi bambini. “Lo prendete – traduco il suo mandato – lo mettete nel cotone e poi lo deponete in un bicchiere. Prendetevi cura di lui per tutta la settimana”. Arrivato a casa, ricordo di aver cercato il punto luce migliore in camera mia, di avergli dato dell’acqua in quei giorni, di essere corso da lui appena mi alzavo la mattina. Ricordo, soprattutto, quando mi accorsi che qualcosa di nuovo era accaduto: il (mio) fagiolo si era schiuso e dentro appariva qualcosa di così strano che non sapevo darci un nome. Il suo nome non mi era noto, ma la sua conseguenza la sperimentai sullo sguardo: si chiama ancora oggi stupore. È il miracolo di un qualcosa che nasce da qualcos’altro, l’apparizione di qualcosa che prima non c’era, il frutto della cura di cui ero stato capace: mi era stato affidato qualcosa e io mi ero dimostrato all’altezza del compito. In questi giorni la notizia è che ci vogliono tenere aggiornati passo-passo sull’evoluzione del virus in atto. Confesso di non leggere più nulla, di non accendere la tv (che non ho), di estraniarmi da questo bailamme di nervosismo numerico: annunciassero anche chi è nato in questa giornata, e non solo chi è deceduto, li riterrei più meritevoli della mia attenzione. Preferisco usare gli unici arnesi che lo Stato mi ha lasciato liberi visto che anche il movimento dei passi è sempre più misurato: la magia dei miei occhi, la poesia dello sguardo, il sorriso del bosco d’autunno. Mi estraneo dal mercato d’informazioni per andare a contemplare i fagioli che oggi ancora mi incuriosiscono: sono storie, legami, volti, foglie d’autunno cadute a terra. Nomi e cognomi. Mi stupisce vedere che da cosa nasce cosa, che dalla carne nasce la carne, che anche oggi qualcuno è nato su questo pianeta senza che qualcuno ne abbia dato minimamente notizia. Mi estraneo per assaporare meglio ciò che vita è in questo raccontare che non è più vita.
È il fagiolo nascosto in quel biglietto: “Qui gatta ci cova”, ho pensato subito. È stata un’immagine d’intima libertà, al tempo della grande deportazione: “Siccome ci impediscono di vederci, noi due continuiamo a farlo: oramai abitiamo nel nostro stesso sguardo, come fosse un condominio”. Dalla disperazione ci salveranno gli occhi, l’unica parte del corpo che nessuna ordinanza potrà chiederci di oscurare: tutto il resto è passibile di possibile prigionia, di prossima limitazione. Non è un caso, forse, visto che l’unica maniera per non farci raccontare la vita è quella di guardarla con i nostri occhi. E accorgerci della grande tribolazione in atto: per troppa paura di morire, qualcuno ha già iniziato ad avere paura di vivere. Di sorridere. Fosse viva la nonna, di sicuro riaggiornerebbe la sua premura nei confronti dei nipotini: “Mi raccomando, mai accettare sguardi dagli sconosciuti, amore mio”. Di quegli sguardi è pieno il mondo. Degli altri vorrei fosse pieno il mio, come si sono lasciati scritti quei due innamorati.