I voli sono tutti definitivamente atterrati: l’arrivederci, per chi vivrà e per chi ce la farà ad esserci, sarà fra quattro anni, nell’Oriente giapponese. Spenti i riflettori sulle Olimpiadi di Rio 2016, a restare in piedi è ancora una volta il punto di vista di Aristotele: «Come nelle Olimpiadi sono incoronati non i più belli e i più forti, ma quelli che partecipano alla gara – e tra essi, infatti, vi sono i vincitori -, così nella vita chi agisce giustamente diviene partecipe del bello e del buono». Per l’atleta le Olimpiadi rappresentano la prova definitiva del suo valore: umano, prima ancora che sportivo, dal momento che il primo viene scelto da molti come condizione indispensabile per divinizzare il secondo. Vincitore, dunque, non è più solo colui che rincasa con una medaglia, ma colui che dopo l’epopea di una battaglia sportiva ha scoperto – e lo dimostra senza volerlo affatto dimostrare – d’esserne uscito più umano. Che, cioè, a conti fatti ne è valsa la pena.
E’ stata, per chi scrive, l’Olimpiade di Tania Cagnotto, la bellezza che dal trampolino diventa eleganza, leggiadria: «Ti affacci, guardi sotto, torni indietro e dici chi me lo fa fare, ci riprovi, esiti, scuoti la testa e, quando tutti si sono buttati e si sono rotti di aspettarti, ti fai il segno della croce, chiudi gli occhi e ti lanci giù urlando» (N. Ammaniti). Chiude la sua carriera d’atleta con al collo due medaglie olimpiche, lei che proprio dall’Olimpiade era stata irrisa. Ammaina la sua bandiera sportiva dimostrando d’essere prima donna, poi atleta: «C’è stato qualcosa di strano – ha il coraggio d’ammettere, l’unica, in merito alla vicenda di Alex Schwazer -. Mi ha fatto pensare che, se qualcuno avesse voluto, magari sarei potuta finire in trappola anch’io. Questo fa paura. Le regole spesso non sono chiare, spesso a prevalere è la politica». Parole d’oro, distanti anni luce dalle parole-da-soubrette di Gianmarco Tamberi, costretto, per un vizio di forma, a dover essere personaggio a tutti i costi, costi quello che costi. Pure smemorato visto che, nella vita sportiva di un atleta, tante sono le salite quante le discese. Che è la vita stessa a somigliare ad una gara. Dividila in tre parti, poi corri la prima con la testa, la seconda con la personalità, la terza con il cuore.
La specialità di Tamberi dicono sia il salto-in-alto, dunque una prospettiva maestra in fatto di saggezza umana: in una finale olimpica, l’asticella può anche cadere una volta senza per questo precludere la vittoria. La vicenda sportiva di Alex, una storia troppo umana per non sentirla un po’ metafora di noi, è la storia di un’asticella caduta, fatta cadere con le proprie mani. E’ anche la storia di un nuovo tentativo di rincorsa verso l’alto, di stacco dal passato. Quello che il salto-in-alto permette a Tamberi, lui con le sue parole l’ha proibito a Schwazer e a chi, nelle fattezza di Sandro Donati, crede nella risurrezione di chi ha sbagliato e, pentitosi, ricerca la redenzione. A maggio vi era entrato col piglio accigliato di certe maestre-del-catechismo, convinte di saper tutto di Dio, dei suoi misteri per aver gettato un’occhiata di sfuggita ad un manuale di teologia: lo si era tacciato come errore di gioventù. Dalle tribune di Rio, però, ha riproposto un inutile bis, ritrattato quando qualcuno gli avrà fatto presente che ciò di cui è convintissimo – e noi con lui, cioè che il doping non abbia discolpa – domattina potrebbe diventare la sua immeritata crocifissione: «Mi ha fatto pensare che, se qualcuno avesse voluto, magari sarei potuta finire in trappola anch’io». Signori si nasce.
L’argento e il bronzo al genio ammaliante di Tania Cagnotto: ci mancherai, ragazza! L’oro, all’umile mitezza di Alex Schwazer, il dio che han voluto a tutti i costi crocifiggere: reggere quest’intera iradiddio d’infamia con i toni dimessi di chi s’è fatto immenso fallendo e rimettendosi in marcia, è il tutto che rimane ad un’atletica italiana rincasata nuda. Il giusto guadagno, forse, per una sorta-di-madre che, vista la vile imboscata al figlio, è stata solo capace d’abbandono. L’opposto del buttarsi-nella-mischia: l’identità di chi è madre sul serio. Sempre.
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