Dell’impietosa legge dell’epica sportiva s’è già fatta paladina wikipedia che, pochi attimi dopo l’annuncio, l’ha relegato impietosamente fra gli ex di lusso. La storia degli annali lo ricorderà per quei due ori olimpici strappati alle Olimpiadi di Torino 2006, per quelle lame affilate e sottili, per quel corpo aerodinamico e quella prestanza fisica che permisero ad uno sport di periferia di salire alle cronache degli altari. Fino a diventare il modello della costanza che premia e dell’impossibile che un giorno s’avvera. Lo ricorderanno così: come si ricordano gli eroi dello sport nel mentre s’attorcigliano addosso la corona d’alloro.

enrico

La gente di montagna – quella che gli ha dato i natali e il sangue combattente – lo ricorderà sempre come il ragazzo timidissimo e veloce, educato quasi sino all’ingenuità e riservato nel parlare. Fosse stato un amante della pratica sportiva, il buon conterraneo Rigoni Stern non avrebbe forse tardato ad annoverarlo nella squadra di Tonle Bintarn e di Giacomo, a raccontare quelle stagioni lunghe e profumate dentro le quali si conserva ancor oggi l’elisir di un’esistenza ben fatta e ordinata: i prati erbosi, i greggi e le bianche vette, gli autunni dal rosso pastello delle foglie, gli inverni silenziosi e il fumo odoroso della legna nel camino.
A Torino 2006 ne inneggiarono le gesta, a Vancouver 2010 ne criticarono la preparazione fatta: in quel giorno tinto di sconfitta, apprezzammo ancor più la sagace saggezza di un ragazzo che diede al mondo la lezione più bella, che forse ancor oggi pochi compresero: nella vita si può vincere o si può perdere, l’importante è essere persone felici. Quella felicità che, sul limitare del bosco, ha il nome della sua famiglia e dei suoi affetti, del miracolo di una piccola nascita e dell’emozione di un amore gigantesco. Certo, perchè anche la sconfitta ha una sua bellezza: strana, complicata, inafferrabile eppure metafora bellissima della vita stessa. La natura – silenziosa interprete delle sue passeggiate quotidiane – gli ha insegnato che la vita ha i suoi tempi e le sue stagioni: c’è la stagione della primavera e dei successi, dell’estate e delle conferme, dell’autunno e della prima stanchezza, dell’inverno col suo riposo. E anche se per lui l’inverno è sempre significato gloria e sudore, all’approssimarsi dell’inverno stavolta ha salutato il suo mondo con il commiato che solo i giganti hanno il coraggio di dare: “in gara non mi diverto più, sono venute meno le motivazioni”. Nessuna presa in giro, ma il gesto dignitoso di chi non accetta d’accanirsi contro quella vocina che gli ha detto “stop”. Quella stessa voce che in anni passati lo faceva alzare presto la mattina, sopportare allenamenti stremanti nelle piste d’Europa, pedalate assolate nei meriggi d’estate, palestre e centri sportivi all’approssimarsi dell’esordio stagionale. Quella voce ha detto basta ed Enrico le ha dato ascolto, come un figlio obbediente che sa rispettare i limiti che la Natura gli racconta.
Addentrarsi un po’ oltre a volte è sinonimo di fallimento e derisione.
In bacheca rimane il luccichio dell’oro, dell’argento e del bronzo, colori che il gigante buono dell’Altopiano ha imparato ad assaporare dopo esserseli sudati nelle lunghe notti di veglia. Eppure domani – con i pattini veloci appesi al chiodo – lo ringrazieremo per tutt’altro: per averci saputo raccontare la bellezza di non essere immortale e di non sentirsi sempre in obbligo di inseguire l’ombra di se stesso a tutti i costi. Lo disse pure Christof Innerhofer, altro gigante buono dello sci italiano: “per andare forte qualche volta bisogna fermarsi”. L’oro olimpico di Torino l’ha capito al volo: c’è una vita davanti tutta da giocarsi. E non sempre vivere sotto il peso dei riflettori è la postazione migliore per essere uomini felici.

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