Avere trent’anni e non sentirli; oppure avere trent’anni e sentirli tutti. C’è chi gli appuntamenti li sposta ad oltranza e chi, segnatosi un giorno sul calendario, giunto a quel giorno parte. S’incammina: poi insegnerà a camminare l’Uomo che oggi s’incammina. Dietro di Lui una preparazione mastodontica: trent’anni di silenzio nella stamberga di Nazareth. A fabbricare sgabelli, a limare le panche, ad apprendere la manovalanza del padre carpentiere: quando Gli toccherà di lavorare i cuori – Lui, figlio di chi smussò i legni – scoprirà che le tecniche sono le medesime. A cambiare sarà la durezza della carne rispetto al legno. Trent’anni racchiusi nella stringatezza di Luca: «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Luca 2,52). Crescere: un verbo che a Cristo farà da casa per tre decenni. Tre decenni di mutismo per preparare tre anni di parole. Un giorno il mondo apprenderà da sé dove sta la differenza tra la parola e la chiacchiera, tra la Novella buona anche da solo da ascoltarsi e il parlare a vanvera fastidioso anche solo nei suoi riverberi.
A trent’anni il Nazareno s’incammina. Marco, l’evangelista, è un cacciatore di prede: ha fiuto di quell’Uomo, ha conoscenza di Lui, Lo pedina nei suoi spostamenti. E’ stringatissimo in ciò che annota: «In quei giorni, Gesù venne da Nazareth e fu battezzato nel Giordano da Giovanni» (liturgia della Festa del Battesimo di Gesù). E’ il poco che basta per un Dio che dal poco – che è poi l’essenziale – trarrà il tutto della Salvezza. Marco lo ritrae dal basso: in fila tra i peccatori, con l’acqua del Giordano addosso, col capo chino davanti all’amico Battista a farsi sciacquare l’anima. Dopo Nazareth – terra feriale, bottega di lavoro, casa tra le case – ecco il Giordano: luogo di peccatori, di attese e di profezie uscite dalla gola del Precursore. S’accedono qui, nei bassifondi della storia, i tre anni che cambieranno la storia: anni non più anni, gesti non più gesti, parole non più parole. Anni, gesti e parole che diverranno pane e speranza per l’umanità striata dal peccato. Partirà sempre dal basso, da posizioni di svantaggio, da situazioni di emergenza: che Dio sarebbe ad entrare nella storia dall’alto dei cieli? Ad entrarci dal basso, nel più completo silenzio, ci guadagnerà la stima di chi conterà per davvero nel cuore di Dio: furfanti e miscredenti, funamboli e meretrici, indemoniati e ciechi dalla nascita. Eppoi storpi, zoppi, lebbrosi e quant’altro.
Ciò che appare dopo i trent’anni passati dentro casa è una voglia tutta sua di non evitare la storia, di non scansare l’umano, di ficcarci dentro il naso per amore e mica per curiosità. Quando potrà essere tale – bizzarrie tutte evangeliche le pagine della curiosità di Cristo – sarà sempre e solo per amore e discrezione: vedere quale strada ha percorso la colpa per entrare nel cuore dell’uomo. Anche il dolore – acuto, lieve, squattrinato – un giorno Gli servirà: non cercherà di cancellarlo con l’oblio, ma tenterà l’avventura che un giorno diventerà traccia di santità: ingrandirlo e nobilitarlo con la speranza. Eccolo il Dio cercato e atteso, sognato e sperato, inseguito e braccato. Il Dio-Uomo: da toccarsi e vedersi, gustarsi e frequentare, da annusare. Da oggi in poi il suo domicilio sarà manifesto, il civico nel quale abita sarà di dominio pubblico, le sue gesta saranno a disposizione di tutti: chi vorrà, se vorrà, lo cercherà e lo troverà. Per chi non lo troverà – magari dopo averlo trovato tra i peccatori e non averlo riconosciuto – basterà quella voce scesa dritta dal Cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
«Le sue radici sono nell’Islam dell’Albania, quasi Grecia: miseria e speranza, angoscia e rischio, illusione e dramma. Un’intera giovinezza giocata tra la strada e la notte e deragliata tra le sbarre e il cemento: con un’infinità di anni a venire. Galeotto, ristretto, imbastardito col Male e la menzogna. Eppur aggraziato, sein galera fallire è non sapersi dare risposte quando la domanda è urgente, pressante, mastodontica: “che senso ha la mia vita?” Se la sposti, soccombi: se l’agganci, ti ritrovi. Forse. Da galeotto ad esploratore: giù dentro te stesso, intontito dalle urla del male, accecato dal sangue. Fino a toccare il fondo e far pace con te stesso: l’angoscia delle angosce. E scoprire che tra i rovi ci son mani di grazia.
Le mani di lei: incantevole, eccessiva, d’intrigo. Imbarazzante. E’ la Grazia del Cielo, l’inedito dell’Amore, l’ossessione di Lucifero. Cosicchè ferro e cemento nulla potranno contro l’irruenza del Cielo. Dell’amore folle verso gl’ingiusti. Finanche a cambiare nome: non più Armand – assonanza di vecchi armamenti di guerra e di terrore – ma Davide: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1,42). Nome nella cui eco c’è pastorizia e fanciullità, sorpresa e gaudio, regalità e imbarazzo. Peccato e grazia: quella che a guardarla da fuori sovente è incomprensibile. Fors’anche aberrante addosso alle anime pie. Eppur il Cielo è così: astuto, garibaldino, ingestibile: «Davide, io ti battezzo». E sarà colpa del Cielo, non d’altri: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Sarà giusto così.
Il Cielo dà di matto. Come sul Golgota. Imbarazzante e profetico» (M. Pozza, L’imbarazzo di Dio).
Il Dio compiaciuto: felice, realizzato, appagato. Contempla l’umanità del Figlio e ne gioisce: “Ben fatto!” A quel Figlio non eviterà nulla: essere “figlio di Papà” lassù in Cielo non significa esattamente ciò che s’intende quaggiù in terra. “Battezzami, Giovanni” – gli dice oggi il Messia. Quasi un incoraggiamento per chi, di fronte a Lui, sente le gambe tremare. Quasi un darsi la mano, un passaggio di testimone: l’amico ha preparato la strada, su quella stessa strada accelererà il Cristo. Senza deviazione alcuna, fino in fondo. Partendo dal fondo.