Tatuaggio

Suoni. E’ tutta una sinfonia di suoni: gravi e solenni, pungenti e ribelli, acuti e imponenti. Suoni che somigliano a dei tocchi, a rintocchi, anche ad arpeggi, palpeggi. Suoni che destano curiosità bambine come il bisbiglio di un lamento, che fan temere come le luci della Polizia, suoni che ammansiscono: un passo amico dentro la paura. Ci sono suoni che rimangono tali, altri diverranno visioni, altri ancora odoreranno di vita: vita fradicia, sudata, lurida. Pochi suoni, però, battono, in attrattiva, quello del bussare-alla-porta: toc-toc-toc. Bussare è un po’ come suonare, anche annunciare, annunciarsi, è un accendersi della memoria, dell’intuizione, un preludio di domanda: “E’ lui. Anzi no: è lei. Chi è che bussa alla porta?” Domanda, con in calce un indirizzo di risposta: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Ci mancava solo un Dio che , pugno chiuso, bussasse alla porta: dopo il Dio-Bambino e quello fornaio – «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo» -, Dio sa di impasti, di incontri. Un Dio per tutti, nonostante tutto, proprio per quel tutto che Gli abbiamo rovesciato addosso.
Alla faccia del suo amore di Padre abbindolato.
La galera è una lenta narrazione di storie rinsecchite, di sguardi inariditi, di ossa senza più brandelli di carne. Storie orride, inorriditesi, di orchi e di banditi. Storie di scassinatori, per i quali il Cielo tiene ancora aperta la possibilità di una porta: certi attimi è dannoso fare dell’utopia. Meglio la consolante-consolazione d’essere nel mirino di un Dio-portiere. Per una porta che si apre, altre porte si andranno a chiudere, per-sempre: il passato, la disgrazia, ciò che è andato a scadere. Nell’attimo in cui una porta si va chiudendosi, un’altra da qualcuno sta per essere aperta: capita, però, di continuare a fissare così a lungo la porta chiusa che non ci s’accorge nemmeno dell’altra che si sta aprendo, proprio per noi. Se non vogliamo crepare in mezzo al fango, un bel giorno dovremmo pure fare la pace, con le porte aperte più che con quelle chiuse: «La vita è una specie di incontro di scherma: è importante sentire la lama» annotava lo scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry nel suo Il diritto di vivere. Il diritto alla misericordia: «Consolate il mio popolo. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati» (Is 40,1-2). In galera fallire è non sapersi dare una risposta quando la domanda t’appare urgente, quando la faccenda diventa seria, seriosa, sostenuta: “Chi sono, da dove vengo, verso dove sto andando”. Domande vecchie come il mondo, nuove come la geometria delle burrasche sulla scogliera: è rimasto ancora qualcuno, in qualche angolo sperduto del pianeta, capace di sognarmi? L’uomo non cresce a forza di sogni, bensì con il loro esatto opposto: «Ciascuno cresce solo se sognato» (D. Dolci). Ancora una volta è questione di misericordia, di quella sbocciata per minacciare il buon senso: «Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Guarda: sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (Is 49,15-16). Dio ha deciso di tatuarsi l’uomo nelle mani: un nome, un volto, una storia.
La più squadernata delle storie di quaggiù: la storia dei perdenti.
In teoria, in certi posti è sconsigliato andarci: nei paesi dei tossici, nelle terre dei briganti, nei bugigattoli del traffico illecito. La forza della teoria è la chiarezza. Sicchè, a ragion di logica, occorre essere disposti ad abbandonare la teoria se, invece che chiarezza, produce oscurità: “Chiudeteli dentro, gettate la chiave!” In teoria. Circa la lucentezza: «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,36) Dietro il ferro-e-cemento delle patrie galere, consolare è un po’ come annunciare. Scoprirsi – quando mai l’avresti giurato per nessuna cosa al mondo – dei postini coraggiosi di buone notizie, rigorosamente per conto terzi: “Dio ti cerca, ti trova. Non te lo perdere, altrimenti sei perduto”. All’uomo ancor muto e chino ad arrovellarsi su «che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia), la consolazione null’altro è che un pro-memoria: Dio si è tatuato il tuo nome sul palmo della mano. Non tutto è ancora perduto.
“La prego di credere alla mia amicizia” sembra essere l’ultima supplica di Dio nel ventre orrido delle galere. Dio, nella tana del lupo. Lui, o chi per Lui.

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