Ogni volta che costeggio Canale d’Agordo in sella alla mia bicicletta (siamo quasi all’inizio della salita del Passo San Pellegrino, da Cencenighe: 18,2 km, pendenza media 6,3%, punte al 14%), non riesco a non voltare lo sguardo su quella torre campanaria per abbozzare un mio segno di croce in memoria del beato Albino Luciani. E’ un figlio splendido di quella splendida terra che è il Veneto: gente rude come le scorze degli alberi, laboriosa come le formiche, amabilmente ombrosi come i montanari e i valligiani sanno essere. E, pensando al “Papa del sorriso” – così me l’hanno sempre raccontato le donne di casa nostra, visto ch’è morto ancora prima che io nascessi – sempre mi torna alla mente un avverbio, che poi continua ad attraversarmi la strada fin sulla cima di questa salita: l’avverbio “solo”. E’ l’avverbio che più gli si cuce addosso ogni volta che si parla di quest’uomo così semplice d’essere illustre, da oggi addirittura beato: “Ha regnato solo trentatré giorni. E’ stato Papa solo un mese” E’ uno degli avverbi di quantità che più ritorna quando si pensa alla vita di Albino Luciani: “solo”. Che, per chi vorrà vederci il marcio dappertutto, facilmente diventa anche avverbio di solitudine: “L’hanno lasciato solo come un cane”. Ognuno vedrà sempre ciò che trattiene nel cuore.

È l’avverbio di quantità che, personalmente, mi affascina: non l’altro, visto che ogni Papa, per la posizione nella quale viene a trovarsi, sarà sempre il più solo di tutti i solitari della terra. “Ha regnato solo trentatré giorni” sento ripetere. E mi aggrappo alla figura dell’ape per decifrare quei giorni. Un’ape vive, mediamente, 60 giorni: in questi sessanta giorni lascia l’alveare circa quindici volte a giorno, visitando fino a cento fiori ogni volta. In una vita, dunque, un’ape riesce a visitare oltre 50mila fiori. E tutto questo andirivieni per che cosa? Per produrre, in tutta la sua vita, la bellezza di un dodicesimo di cucchiaino di miele. “Solo questo? Neanche un cucchiaino?” è il vociare della gente. Sì, “solo” questo: ma, per l’ape, questo è il suo tutto, lì dentro c’è tutta la sua vita. Anche la storia degli uomini e delle donne funziona così: ci sono persone che vivono ottanta, novanta, cento anni (anche di più) e quando se ne vanno lasciano il mondo come l’hanno trovato, se non peggio: nessuno si è accorto del loro passaggio. E ci sono persone che vivono, regnano, per pochissimi giorni e lasciano in eredità al mondo un qualcosa che mai più si eclisserà: un dodicesimo di cucchiaino di miele, un sorriso sul volto, un’intuizione che aprirà su prospettive fino ad allora inimmaginabili.

Di quanti papi – dei 266 che la Chiesa annovera (ovviamente qualche “illuminato” dirà che sono 265, lo anticipo “misericordiandolo”) – non ricordiamo nulla, o poco più: le scarpette rosse, la sedia gestatoria, l’ermellino, cose così. Eppure, qualcuno di loro, è stato sulla scranno di Pietro per decenni. Al beato Albino Luciani, trentatrè giorni sono bastati per lasciare impresso un sorriso che, dopo 44 anni, è ancora stampato sulla guancia della sua Chiesa: come il rossetto di una donna sulla guancia del suo uomo. Non è che gli siano bastati, mi correggo: erano i giorni giusti che Dio aveva messo a disposizione per quel suo mandato. E lui li ha vissuti, da buon veneto, con il sorriso bonaccione di chi, quassù, ogni mattina ha imparato a mettersi al sicuro nelle mani di Dio, della Madonna e dei suoi santi.

Il tempo di arrivare in cima alla salita e focalizzo la lezione: non contano gli anni a disposizione, a fare la differenza è sempre il fuoco che ciascuno ha dentro: ognuno fa il fuoco con la legna che ha. Perchè nessun tempo è mai tenebroso o sfavorevole: siamo noi il nostro tempo. Un tempo affidatoci per diventare il sorriso di Dio tra le strade del mondo. O non diventarlo.

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