La vittoria è spesso la somma di tante piccole sconfitte: anche la sconfitta, troppo spesso, è la somma di tante piccole conquiste che pensavamo vittorie. Così la storia non crolla mai improvvisamente ma lo fa con una sorta di piccoli fiaschi e insuccessi che ai più risultano impercettibili. Tante pagine di storia contemporanea funzionano al pari della strategia adottata dalla Russia con Napoleone: lentamente lo fa avanzare, lo illude della sua forza e una volta arrivato in Siberia gli augura “buona morte”. E la storia si ripete giorno dopo giorno. Come l’altro pomeriggio nell’isola di Utoya (Norvegia) dove dopo gli spari impazziti scese il silenzio delle grandi stragi: di Capaci e della stazione di Bologna, del New Trade Center, della metropolitana di Londra e di Madrid. Il più delle volte non serve la grande strage, è sufficiente lo sterminio cercato di un simbolo: come nel Pakistan di Benazir Butto.

utoya

Stavolta il racconto in diretta è affidato a Twitter e a Facebook. Bergensian Kjetil Vevle è uno delle centinaia di ragazzi riunitisi per il campo estivo del partito laburista sull’isola di Utoya: le sue parole raccontano la sparatoria ancora in corso d’opera, la cronaca in diretta di un incubo. Ad Oslo hanno attaccato la sede del giornale, volevano far fuori il premier Jens Stoltenberg , leader carismatico del movimento politico laburista, a due passi dal Nobel Peace Center, dedicato ai grandi uomini che negli anni hanno ricevuto l’ambito riconoscimento: i simboli attaccati hanno un che di malefico quando vengono letti a posteriori. Eppoi il fuoco si apre nell’isola di Utoya dove un gruppo di ragazzi è impegnato in un campus estivo, tra politica e natura: probabilmente stavano riflettendo sul futuro del pianeta, sul possibile protagonismo giovane in politica, sull’organizzaizone della speranza per la loro nazione. Perchè c’è anche una giovinezza che continua a crederci, a investire, a immaginare uno stile diverso di essere e di esserci dentro le loro esistenze. Sono un centinaio o poco più. Ottantaquattro di loro verranno uccisi mentre gli altri tenteranno di scappare per difendere loro stessi, le loro idee e i loro sogni. Il premier avrebbe dovuto raggiungerli nel pomeriggio: il terrorismo prima ha bloccato lui poi ha bloccato anche loro. Perchè una certa storia fa sempre paura quando sta per nascere nuova e coi colori inarrestabili della giovinezza.
L’uomo nero stavolta non è nero, è un bianco alto un metro e novanta, dall’aspetto decisamente scandinavo. Cioè è uno di loro, uno della nostra razza, cristiano intransigente. Non sapremo mai i motivi che l’hanno spinto ad agire: ci rimangono i segni del suo passaggio e la convinzione che – anche qualora chiudessimo le frontiere – Caino è sempre all’opera perchè il più delle volte abita dentro di noi e non laggiù dove gli dei da adorare hanno i connotati diversi dal Cristo del Golgota. Pensare di reggere il mondo da soli è una “metafisica sciocchezza” sentenziava il filosofo Max Scheler. Eppure ci ostiniamo a volerci credere pur avvertendo la Siberia avvicinarsi. Rimane l’ultimo messaggio lanciato vis sms da una ragazza poi ammazzata: “Ti voglio bene”. E’ la certezza raccontata dai giovani che quando tutto sembra essere destinato alla distruzione solo la forza dell’Amore potrà salvarci dalla disperazione completa.
La Svezia è un paese confinante: è lei ogni anno ad assegnare il Premio Nobèl. Candidiamo i pochi ragazzi sopravissuti alla sparatoria a questo riconoscimento planetario: sarebbe il gesto più bello per ricordare che la pace passa anche attraverso il pensiero giovane di chi è stato ammazzato perchè stava progettando un sogno.
E i sogni dei giovani fanno sempre più paura.

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