Ben misero è il quadro che ci dipinge la prima lettura: sembra infatti assai lontano da qualunque bellezza. Irraggiungibile da qualsiasi possibilità di bellezza.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. (Is 53,3)
Questa è la descrizione del “servo di Jahvè” che troviamo nel capitolo 53 del libro di Isaia e che attribuiamo, senza tema di smentita alle sofferenze che Cristo patì il Venerdì Santo, quando il suo corpo fu orribilmente straziato, prima dell’estremo supplizio, non meno doloroso, della Crocifissione. E, davvero, si tratta di immagini da cui vorremmo distogliere lo sguardo.
Del resto, spesso, la sofferenza compie opera non solo di sfiguramento, ma – più profondamente – di “trasfigurazione”: la malattia opera su chi ne è colpito, la possibilità di una nuova prospettiva di visione delle cose. Di un’occasione, pur nella difficoltà, di avere una visione più vicina allo sguardo di Dio. Sostenere quello sguardo ci è però fastidioso ed insopportabile: possiede la sincerità dei bambini, ma senza essere unita alla loro innocenza, per cui ci risulta increscioso e molesto. Forse, per questo, preferiamo l’eliminazione del malato, con la malattia, piuttosto che lasciarci interrogare dalla diversità che portano con sé, arrivando perfino a giustificare tutto ciò con il “miglior bene del paziente”. Estremo, paradossale tentativo di trovare un alibi alla nostra difficoltà di leggere il reale, quando non risponde ai canoni prefissati, quando il Mistero bussa alla nostra porta, spezzando i pregiudizi e mostrando la verità “così com’è”, senza finzioni, con quella sincerità che hanno i bambini, capace di spiazzarci e che riusciamo a perdonare solo alla loro età (tant’è vero che certe domande infantili, a cui sorridiamo, ci sconcertano, se a porle è un adulto).
Eppure, nella vita di ciascuno, pur non essendo cercata né voluta, è – spesso – proprio la sofferenza a farci capire chi siamo veramente, nel bene e nel male. A mostrarci la forza che non pensavamo di avere, ma – al contempo – la precaria fragilità di ogni vita umana.
Non possiamo però fermarci alla prima descrizione: è necessario proseguire nella lettura perché «dopo il suo intimo tormento vedrà la luce» (Is 53, 11). È molto più di un semplice “lieto fine”, poggiato posticciamente in seguito a qualche verso azzardato ed eccessivamente truculento, giusto per non spaventare troppo il lettore. Già in queste parole si sviluppa, in nuce, la fede cristiana, che si renderà palese nella grande “sorpresa” della Risurrezione di Cristo e in quel sepolcro, tutt’oggi vuoto, che “rende ragione” di ogni nostra speranza. Rappresenta la certezza che non esiste realtà da cui “vorresti volgere lo sguardo” che possa avere ragione su di te. C’è sempre un surplus di grazia, in virtù della quale è possibile andare avanti e guardare con speranza oltre, anche quando ci sembra di essere circondati dal buio più fitto, senza possibilità (apparente) di risoluzione positiva.
Anche noi dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. (Eb 12, 1-2)
Eccolo, il di più: è Gesù stesso il “carico leggero”, a cui guardare per risollevarci, facendo cambio con il “peso”, che è il peccato che ci impedisce di guardare verso la luce, come gli occhi del cieco nato, che abbiamo incontrato nella IV Domenica di Quaresima. Paradossalmente, se paragonate a quelle di Cristo, le sofferenze di Cristo sono anche più brevi di quelle di alcune persone (che durano anche l’intera vita), tuttavia Gesù, nella sua umanità, sottolineata dal pianto nella V Domenica di Quaresima, di fronte a Lazzaro morto, è pienamente “nostro fratello”, nell’aver sperimentato, sulla propria pelle, la varietà delle esperienze umane. Il calore di una famiglia, il dolore per la morte di un genitore, la fuga, l’insicurezza, la ferialità della vita quotidiana, il contrasto con il potere religioso e politico, il tradimento di un amico, il rinnegamento di un altro, la solitudine più completa, proprio durante l’apice della sua missione, quando era “sconfitto”, di fronte al mondo.
Il Vangelo di questa domenica riprende la famosa scena del trionfale ingresso di Gerusalemme (Gv 12,12-16). Prima di arrivare a questo punto, però, esattamente il giorno prima, avviene un pranzo, in cui troviamo Lazzaro redivivo e una scena conviviale, a casa della famiglia di Betania:
Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: «Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?». Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». (Gv 12, 3-8)
Questa cena si colloca proprio il giorno prima di iniziare quella che definiamo Settimana Santa (o “Autentica”, per sottolineare l’importanza liturgica di questo periodo, in cui sono racchiuse le ultime ore terrene del Signore). Quasi che, consapevole della solitudine umana a cui sta andando incontro, abbia sentito l’impellente necessità, di ritrovare, per un’ultima volta, quei visi amici e quelle mani affettuose, su cui aveva sempre potuto contare, nel suo percorso di vita pubblica.
In una scena di intimità familiare, avviene un gesto strano che Giovanni, al contrario dei sinottici, pone in essere tramite Maria di Betania, invece che tramite una donna sconosciuta. Se vogliamo, proprio questo, in un certo senso, aggiunge qualcosa in più. Si tratta, in questo modo, di un gesto di tenerezza, non richiesto, nei confronti di Gesù. Non richiesto ma, non per questo, sgradito: tant’è vero che non è rifiutato dal rabbi di Galilea. Tanto che, non solo la lascia fare, ma, addirittura, la difende pubblicamente da uno dei suoi discepoli, avallandone sia l’intento che la modalità.
Da una parte, abbiamo Giuda, con l’illusione che servire i poveri sia una pia azione, migliore che amare il prossimo, mentre, spesso ci dimentichiamo che non sono i poveri ad avere bisogno di noi (come ci illudiamo, con tronfio paternalismo), ma siamo noi ad avere bisogno di loro, per scoprire quale sia la vera e duratura ricchezza. Dall’altra, la testimonianza sempiterna che l’amore, quello vero, va sempre oltre l’utilità e lo sterile tornaconto personale.
L’amore richiede spreco. Di energie, di forze, di creatività, di fantasia. Anche di denaro. Perché l’amore sa comprendere il momento. Non dimentichiamo, del resto, che Maria era quella che “ascoltava il Maestro”, mentre Marta era affaccendata (Lc 10,38-42): in quell’ascolto, deve aver sintonizzato il proprio battito col battito del cuore del Maestro, così che non le è potuto sfuggire il turbamento del Nazareno, alla vigilia di quella settimana che avrebbe sancito la sua fine terrena.
Il giorno seguente, Gesù ed i suoi seguaci si dirigono verso Gerusalemme e il Maestro dà indicazioni precise, troppo, perché si possa anche solo pensare che siano frutto del caso: anche per degli ebrei, come i discepoli, più avvezzi a legar gomene che a studiare teologia, tutto ciò non può essere risultato ordinario. Eppure, “sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto” (Gv 12,16). Anche a noi, spesso, capita qualcosa di simile: mentre viviamo un momento esaltante, tendiamo a non domandarci perché. Salire sul carro del vincitore fa piacere e rimuoviamo le domande (quanto meno, le lasciamo in standby, con il proposito di riprenderle in un secondo momento). Quando poi, però, torniamo al passato e cerchiamo di dargli un significato, ritroviamo il dipanarsi della nostra storia come misteriosamente consequenziale, nella finalità di provocarci a diventare il miglior modello di noi stessi.
(cfr. Letture festive ambrosiane nella Domenica delle Palme 2018, Anno B)
Fonte immagine: Filmtekercs.hu