I diciassette omicidi alle spalle e i tredici ergastoli come pesante debito da risarcire – consci che nessun ergastolo riuscirà mai a riparare il danno di vite spente per sempre – non hanno impedito al serial-killer Donato Bilancia di lanciare un grido disperato d’amore da dietro le sbarre del Carcere Due Palazzi di Padova, laddove ogni mattino s’assiste in anteprima all’eterno duello tra l’angelo e la bestia che sono nascosti nel cuore dell’uomo. Un’esistenza, quella di Bilancia, caratterizzata da una mancanza d’amore che lo ha portato sulla soglia dei 60 anni a gridare il suo disperato bisogno d’amare, di sentirsi amato e forse ancora un po’ utile a quella società tradita dalle sue nefandezze. Non chiede l’evasione o la scarcerazione anticipata, chiede semplicemente un aiuto per poter essere d’aiuto: “per problemi legati alla mia coscienza che è costantemente tormentata dal rimorso per ciò che ho commesso ho deciso di occuparmi di una famiglia che abbia al suo interno un bimbo speciale”. Eggià: anche i lupi hanno una coscienza. Spenta, intontita, stordita; eppure ce l’hanno.
Il web l’ha già bollato come l’ennesima farsa per diminuire una pena pesantissima e una certa giustizia forcaiola ha già gettato da tempo la chiave della sua cella. Ma dietro le sbarre di un carcere, tra gente che la società ha relegato al ruolo di mostri o di lupi, sto scoprendo storie meritevoli d’essere raccontate. Perché, se scrutati nel volto, della maggior parte ci s’accorge che mostri non lo sono. O per lo meno non lo sono sempre stati. O magari non lo saranno più. Dentro le celle vivono anime che sono alla ricerca di un’identità perduta, che con la faccia per terra cercano un brandello di Cielo al quale aggrapparsi per non soccombere alla galera della disperazione. Ecco perché nel ventre più profondo delle patrie galere c’è nostalgia d’amore, di quell’amore che rimane l’ultimo baluardo al quale affidare sogni e speranze di un futuro diverso. Perché la giustizia fotografa e condanna analizzando la brevità e l’efferatezza di un delitto; ma se solo si trovasse il coraggio di leggere tutta la trama di una biografia a volte ci s’accorgerebbe che dietro tante carneficine sono nascoste altrettante biografie ferite e imprudentemente abbandonate a se stesse. Chi scrive non giustifica i delitti dei suoi parrocchiani “scapestrati”: cerca semplicemente di risalire assieme con loro la scarpata dell’esistenza per dare voce a quell’angelo che chiede loro di pentirsi e di tornare a vivere da uomini.
Donato Bilancia parla di affetto, di amore, di famiglia e di vita: vocaboli che stonano con il grigiore delle celle e delle loro esistenze. Eppure questa è gente d’amare secondo il monito del poeta Catullo: “amami quando lo merito meno, sarà quando ne avrò più bisogno”, perché nonostante tutto l’uomo è la scommessa che merita sempre una “seconda possibilità”. E se quest’uomo dagli inferi degli errori trova ancora la forza di parlare d’amore e d’affetto questo è il segno più bello che su questo vecchio mondo la speranza non è ancora morta. “Le condizioni nelle quali fare il nonno – specifica Bilancia – sono oggettivamente molto particolari”. Eppure se dietro le sbarre vivono dei lupi, un giorno impareremo che cosa significa che i fiori più belli non nascono dai diamanti ma dal letame: di chi ha fallito ma non tace la voglia di riscattarsi, magari fra tredici ergastoli scontati.
Non è mai troppo tardi e non si è mai troppo in basso per non essere più capaci d’avvertire l’eco di un qualcosa che ci faccia sentire ancora vivi.