Io sono un narratore di storie. Ho scoperto d’esserlo narrando storie per la mia bimbetta. Le storie si formano allo stesso modo in cui si forma una perla dentro l’ostrica. Ostriche felici non fanno perle. Occorre che un granello di sabbia entri nell’ostrica e raggiunga la sua carne molle. Il granello di sabbia rende l’ostrica infelice. Per liberarsi dal dolore provocato dal granello di sabbia, l’ostrica avvolge pazientemente l’aspro granello di una sostanza liscia, senza punte e rotonda: la perla. Le storie nascono allo stesso modo. Mia figlia è nata con il viso difettoso. E io le raccontavo storie per cambiare tale dolore in bellezza. Ma per fare questo era necessario che io possedessi il potere dei maghi. Sì, le storie sono riti magici”
(R. Alves, Come sono diventato un narratore di storie, o un mago che è la stessa cosa)

danil-di-lucaQuel rifugio – incastrato all’incrocio tra la strada che sale dal Lago di Levico e quella che scende dritta dal Passo di Vezzena – è da anni il mio punto di ristoro dopo aver sfidato la perfida salita del Menador che s’inanella verticale verso il cielo. Entrai anche quel mattino (ricordo il giorno esatto: giovedì 23 luglio 2009) e mi buttai a capofitto tra le pagine de La Gazzetta dello Sport, il mio vangelo laico. Una sberla inaspettata s’infranse violenta sul mio viso da guerriero: “Di Luca scandalo: sangue al Cera. Due controlli lo inchiodano”. La fine di un lunghissimo sogno, perché quel ragazzo era da anni il mio beniamino sportivo. La sua caparbietà, l’indomita sua forza d’animo, il piglio strafottente del campione nato, la rabbia agonistica di chi fino all’ultimo metro della cronometro di Roma al Giro 2009 aveva sfidato il russo Menchov per strappargli la classifica finale. Anche lui colluso col doping: l’ennesima truffa, l’ennesima bastardata, l’ennesima delusione. Eppure non volevo crederci, non potevo crederci: la mia passione era appesa ad un filo chiamato controanalisi. Che, puntuali, emisero la sentenza capitale domenica 9 agosto 2009: “Confermati i risultati di Parigi: Cera in due controlli del Giro. Rischia fino a 4 anni di squalifica”. Quel giorno d’agosto celebrai le esequie sportive alla mia grande passione per il ciclismo: s’era consumato un tradimento.
In quei giorni pensai a tutti quei ragazzini stipati lungo i sentieri di montagna per vederlo passare, alla folla che lo osannava nella sua terra d’Abruzzo martoriata dal terremoto, al delirio festante sotto il Colosseo nell’ultima sua corsa. E dopo il pensiero venne l’immaginazione: cos’avrebbe inanellato quella delusione nel cuore dei ragazzi che in lui vedevano l’emblema della passione che diventa il mestiere più bello della vita? Presi carta e penna e iniziai a scrivere. Erano anni che quel romanzo mi tormentava: l’avevo abbozzato, ricorretto, immaginato e riscritto. Ci mancava la classica goccia che facesse traboccare il vaso. E quella goccia si chiamava doping. Un doping doppiamente mortale: perchè s’era abbinato al nome del mio campione. Fino a sporcare indelebilmente la carriera a lui e chiudere anzitempo la passione a me.

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Chiamai a raccolta i personaggi che da anni simpatizzavano nella mia mente. Ad ognuno di essi ci diedi un nome, una professione, un’anima. Il più giovane di loro (Luca, ndr) era la promessa ciclistica della squadretta di paese. E teneva come mito proprio quel Danilo che la stampa aveva sbattuto come mostro in prima pagina e il cui poster campeggiava all’ingresso della sua camera. In quindici giorni scrissi questo mio lunghissimo racconto. L’ambizione che ora ci leggo dentro era la stessa che animava quelle mie notti d’estate nel silenzio del Trentino: scandagliare l’animo di un giovane nel mentre s’imbatte in un desiderio ferito. Cittadino di un paese distratto e in festa: o semplicemente incapace di capire che da una caduta il fisico s’aggiusta, da una delusione raramente l’anima si ricucisce.
Scrivendo ho visto il mio personaggio esultare per una vittoria e piangere per la morte di papà, aggiustare la catena della bicicletta e arrancare sulla salita del lago. L’ho visto dormire a scuola (nel penultimo banco a destra, ndr), innamorarsi di Valentina e perlustrarne il corpo, litigare con la nonna e confidarsi col nonno: era la sua faccia naturale. Poi una sera l’ho incrociato strano e stralunato: nottambulo, coi tatuaggi, fiero d’appartenere alla compagnia della notte. L’ho contemplato mentre sfidava la legge, la legalità e il buon senso. Mi sono imbattuto in lui mentre stava per ammazzare un vecchio, mentre se ne stava supino in galera, mentre dialogava con il ragno nella cella (la penultima della sezione, per la precisione). Ho raccolto le sue lacrime per la morte del nonno, mi son commosso nel vederlo acclamato Assessore allo Sport del suo paese (Fossa delle Lucertole, ndr). Ho partecipato al suo matrimonio, all’elaborazione della sua democrazia creativa, all’inaugurazione di un sogno divenuto realtà. Nello scorrere di un romanzo l’ho visto nascere, morire e risorgere. Perché tutto ha un inizio e una fine: ma il mentre è fantastico.
Poi ho messo giù la penna e mi sono riposato. Quella sera la luna si specchiava festante nel Lago di Lavarone: a due passi da quel rifugio dalla notizia nefasta. M’era rimasto solo un dubbio tra l’inchiostro e lo sguardo, perché in fondo ancora l’amavo: “che ne sarebbe stato del mio campione?”. Domanda che per più di un anno rimase insoluta a tormentarmi il sonno.

***

Treno AltaVelocità: da Roma Termini a Venezia-Mestre, 16 ottobre 2010. Sempre la solita Gazzetta in mano, nella mia valigia il manoscritto del romanzo da correggere per l’ultima volta prima di darlo alle stampe. A pagina 35 del giornale rosa si riannodano i fili di un vecchio discorso rimasto insoluto: “Via libera Di Luca: l’ho fatto per i ragazzi di oggi”. Fuori dal finestrino i campi arati della Toscana, i casali con i loro severi cipressi, gli armenti brulicanti sui prati. La commozione nel mio sguardo. Senza saperlo quel campione aveva offerto l’incipit al mio romanzo e adesso – mentre la storia di Luca era tornata a colorarsi di speranza – anche il campione stava imboccando la via della redenzione. Lo spazio di un romanzo per ferirsi e ri-abbracciarsi. Lo dovevo contattare assolutamente perché la cosa era strana, di quelle stranezze organizzate il più delle volte da Lui. Come fare a contattare un campione di quel livello? Leggo l’articolo e scorgo il nome dell’avvocato difensore: per uno stranissimo gioco è il papà di quattro splendidi bambini che frequentavano la mia parrocchia di Padova. Mando un messaggio a sua moglie. Non mi risponderà mai. Quando la voce dello speaker annuncia che “siamo in arrivo alla stazione di Padova”, mi alzo e continuo a pensare alla via, al nome dei bambini, all’indirizzo segnato di sicuro nelle liste dei campiscuola estivi del mio pc.
Non servirà più nulla: due sedili più avanti vedo un uomo – lo stesso che stavo cercando disperatamente di contattare – alzarsi e sorridermi. Era l’avvocato di Danilo che tornava col bottino pieno dal processo svoltosi a Roma presso la sede del CONI. Nessuno di noi due disse niente: non serviva conoscere il retroscena, bastavano gli sguardi sorridenti e increduli. Sette giorni dopo eravamo tutti e tre seduti nell’angolo di un’osteria padovana, appresso al lungargine dei miei allenamenti: io, lui e Danilo. Non so perché le cose succedano; so che quando succedono sono bellissime metafore della Provvidenza.

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Gli ho stretto la mano: era la mano pulita di un campione che cercava un’altra mano per ritrovare la sua credibilità. L’ho fatto per un dovere professionale, perché l’errore va condannato ma l’errante perdonato. In tre mesi ci siamo conosciuti, abbracciati e rialzati; abbiamo trovato squadra (e che squadra!), abbiamo costruito una famiglia attorno, siamo tornati a sognare. Lui non poteva sapere nulla del romanzo, ma quella sera intuii che prima di entrare nelle librerie anche il campione aveva imboccato la via della redenzione.
Il 21 dicembre 2010 – giorno del mio trentunesimo compleanno – di fronte a 500 studenti assieme facemmo il primo passo della rinascita. Il giorno dopo La Gazzetta dello Sport a tutta pagina esce con il titolo che il personaggio della mia storia avrebbe pagato pur di leggere: “Patto Di Luca: ragazzi, credetemi: tornerò a vincere senza scorciatoie”. Lo legge il team manager di una delle più quotate squadre ciclistiche del pianeta, la russa Katusha. Lo chiama e gli offre una chance all’altezza di un riscatto: correre gratis per ridare allo sport ciò che con il suo comportamento aveva rubato. Il 10 gennaio 2011 la firma del contratto in un teatro gremito di studenti, primo caso nella storia del ciclismo professionistico mondiale. La Gazzetta se ne esce a tutta pagina per l’ennesima volta: “Di Luca firma: sono un uomo nuovo. Ho scelto la Katusha e correrò gratis”.
Il 6 febbraio 2011 la prima copia del romanzo (divenuto nel frattempo un progetto editoriale inedito nella sua forma) arriva nell’ufficio dell’Amministratore Delegato di De Agostini Scuola. Lo stesso giorno, nell’isola di Maiorca, un ciclista ri-mette il numero sulle spalle e comincia la sua nuova carriera sportiva e umana: in nome dei giovani. La sua maglia è rossa e bianca. Il suo soprannome è rimasto lo stesso (il killer). Il suo nome è Danilo di Luca.
Quel giorno su La Gazzetta dello Sport compare un augurio strano:

Ti ho stretto la mano quando sul tuo collo pesava il cappio di una dura condanna sportiva, con annessa la responsabilità d’aver macchiato uno sport ch’è da secoli la metafora più bella della vita. L’ho fatto perché la teologia m’insegna che l’errore va condannato ma l’errante va perdonato. Perdonato con il debito di una penitenza da scontare: capitalizzare l’errore fatto e trasformarlo in occasione di crescita per coloro che di un campione ne fanno un idolo.
Hai messo la firma sul tuo contratto davanti ad un teatro gremito di studenti: la loro fiducia e la loro giovane simpatia – che stavolta tu non tradirai – sono il primo accredito che trovi sul tuo cammino di riconquista della credibilità. Lo sport è rimasto uno degli ultimi alfabeti tramite i quali far breccia nel cuore dei giovani: truccarne la grammatica significherebbe precludere per sempre la speranza di riuscire a raccontare la bellezza di diventare protagonisti di una vita all’altezza dei nostri sogni.
Ti ho stretto la mano all’ombra di una condanna, ora ti abbraccio alla luce del sole come per un fratello ch’è tornato finalmente a sorridere. Perché conosco che dietro quel sorriso scanzonato e giovane ci sta l’abbozzo di un progetto per ridare ai giovani ciò che un tuo gesto ha loro tolto: la certezza che nella vita senza la fatica si fa fatica ad addormentarsi la sera.
Buon viaggio, campione: assieme ce la faremo!
(don Marco Pozza, La Gazzetta dello Sport, 6 febbraio 2011, p. 25)

Qualche sera fa sul lungomare di Pescara – ospite della sua bellissima famiglia – consegnai a Danilo la prima copia del romanzo (che attende una continuazione). Danilo mi salutò con una frase delle sue: “don: vado, vinco e torno”. Era tornato il Danilo dei vecchi tempi. Ieri sono passato in allenamento davanti a quel rifugio di montagna. E ho pensato che la sconfitta è l’arma segreta dei vincitori.
Mi è piaciuta così tanto quell’intuizione che l’ho voluta come sottotitolo: a imperitura memoria di coloro che in essa s’imbatteranno. Perché nulla è mai perduto nella vita.

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