Ci viene detto che durante l’Avvento ci si prepara al Natale. Che senza preparazione il Natale resta una festa consumistica, intorno a doni, panettone e pandoro. Che è necessario comprenderne appieno il significato, anche quello politically s-correct.
Perché non è (solo) la festa della gioia, dell’amore e della famiglia. Stiamo parlando di un Dio bambino che si fa presente tra di noi, per farsi dono per noi, per essere il nostro dono. Perché è il Dio–con–noi!
Ma che cosa vuol dire davvero “preparare il cuore”? In che modo predisporre un luogo che non è un luogo, un tempo che non è propriamente tempo? Come fare perché il Figlio dell’Uomo possa davvero piantare la tenda in mezzo a noi?
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5, 23 – 24).
Anche qui si parla di dono, ma in modo in-audito, cioè mai sentito prima. Queste righe mi hanno sempre colpito, perché stravolgono anche i principi posseduti dai più magnanimi.
Se lette distrattamente fanno pensare a un litigio avvenuto tra due persone. Tralasciamo l’interessante excursus a proposito del significato di fraternità nella cultura giudaica e – poi – in quella cristiana (per i più curiosi, consiglio di leggere il libretto La fraternità cristiana, di Joseph Ratzinger, edito da Queriniana). Basti considerare che si tratta di persone che si conoscono abbastanza, ma non trapela confidenza particolare. È giusto appena suggerita una comunanza di fede. Tuttavia, chiunque abbia sperimentato l’appartenenza a una qualche parrocchia, sa bene come – tanto spesso! – questa comunanza sia una peculiarità davvero labile, incapace di essere deterrente a veleni, invidie, contese e gelosie. Ma leggiamo con più attenzione. Non si parla di nessuna contesa esplicita. Di più: non si dice che sia quel “tu” ad aver commesso un torto. No, no: è il fratello ad avere qualcosa contro di lui. Roba che a una persona normale vengono due pensieri, come minimo.
Numero uno: “Se quello ha qualcosa contro di me, che venga lui a scusarsi, io non mi muovo!”
Numero due: “Se quello è pure arrabbiato con me, ma ti pare che me le vado pure a cercare, per riconciliarmi con lui?”.
Ecco: onestamente, penso che siano pensieri assolutamente normali e assolutamente di buon senso. Volendo essere ancora più onesti, sarebbe però più corretto definirli anche utili e di tornaconto.
Proprio questo sottolinea quanto sia necessaria la preparazione per accogliere la “rivoluzione” di Cristo. Il cristiano è chiamato ad un tale amore per la Verità che non gli basta poter dire “io ho la coscienza a posto”. Dovrebbe sentire la necessità di “sanare” quell’increspatura, prima che diventi un maremoto. Dovrebbe essere così sinceramente coinvolto da voler ricomporre quel rapporto che s’è inquinato, per cattive parole, sguardi d’invidia. Pur non avendone interesse deve voler coltivare limpidezza e serenità nei rapporti: quella trasparenza che può contraddistinguere solo ed esclusivamente chi non ha nulla da nascondere. E, proprio per tale motivo, è disposto persino al sacrificio.
Il sacrificio di mettere alla prova una relazione, alla “prova del fuoco” della verità. Perché, alla luce del perdono, della volontà di chiarezza, sono chiamati allo scoperto anche i sentimenti meno nobili. È possibile provocare astio o risentimento. Tuttavia, si rivela come l’unico modo per salvarsi dal tornaconto e dall’utile, unico criterio altrimenti possibile, nella regolamentazione delle controversie umane.
Non è possibile presentare un dono senza la riconciliazione, pena la credibilità del dono stesso.
Eppure, è possibile un perdono vero, rigenerante, in qualche modo ri-creante? Oppure questo tipo resta prerogativa unica ed esclusiva di Dio e, in potere dell’uomo, resta solo un timido surrogato, con la volontà di risoluzione e l’impossibilità di essere risolutivo?
Mi rendo conto che, molto spesso, il perdono non basta. I ricordi bruciano, e non sono nemmeno quello il problema principale. È l’insicurezza di fondo che resta, è quel legame di fiducia frantumato che lascia lo strascico di una domanda impegnativa: “chi può assicurarmi che, chi mi ha ferito, non lo faccia di nuovo?” Per ricucire i lembi di una ferita, non è sufficiente riavvicinarli tra loro, ci vuole tanto tempo e tanto spago. Di sicuro, tanta pazienza…
La vera sfida è quella di fidarsi ancora e di fidarsi nonostante il passato e tutto quello che ha procurato dolore o – anche – delusione.
Tutto ciò costituisce una difficoltà innegabile. Tuttavia mi sento di capovolgere la domanda precedente, in questo modo: “chi può assicurarmi che chi non mi ha ancora ferito, non lo farà?”.
Forse non tutti gli strappi potranno essere ricuciti, forse il nostro cuore “troppo umano” ci metterà tanto tempo a perdonare e forse, in determinati casi, non riuscirà neanche a farlo davvero.
Credo però fermamente una cosa. Gandhi non andò lontano quando disse: «Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo». Probabilmente sarà difficile attuare tutto questo (che poi sono due righe appena di Vangelo!), ma potrà rivelarsi il primo passo verso uno sguardo sull’uomo che renda giustizia della grande fiducia di Dio nei suoi confronti!