pazzia

La chiamata di Dio è sempre un segnale di partenza! Per Pietro la vita non era stata facile dai giorni in cui aveva abbandonato le barche per seguirlo. Che poi ora dovesse “soffrire molto” fino ad essere “messo a morte” (Lc 9,22), la sua mente non poteva proprio contenerlo. Ma lassù, sulla cime di quel monte, è proprio di quello che egli torna a parlare con due anziani, Mosè ed Elia (liturgia della II^ domenica di Quaresima). Ciò che avviene sul monte è una sorta di anticipazione di quel mondo trasfigurato che attendiamo. Certi attimi di luminosa pienezza in cui urliamo “è bello per noi stare qui” possono accadere già oggi: vorremo bloccare il tempo, piantare tende immobili al vento. Ma non sono che attimi, nei quali si resta poi impietriti. Perché dal monte si deve scendere: è un comando. Un’esigenza d’amore.
Eppure è tentazione per noi, che siamo fatti per gli incanti, fermarci dove si è felici, dimenticare giù a valle le tribolazioni e il destino degli altri. Come Pietro e la sua prima sbadataggine: lui, pescatore di un mare stretto tra sponde, la vorrebbe trasformare in un soggiorno definitivo quella gioia, in un riparo protettivo contro la croce. Non vuol tornare a valle: non gli vanno giù quelle tre tende là in cima, quel dolce vivere in pochi, senz’affanni, senza mai più morire. E rimbomba l’eco di quella splendida dichiarazione di tenerezza che Il Nazareno dedica a Pietro: “Quand’eri più giovane, ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18). Come sul monte, l’invito è a portare i tuoi amici in alto, fuori dal rumore, e far vedere la tua vera faccia, far sentire come è “bello per noi stare qui”. Toccarli e dar forza, togliendo loro la paura. Poi, senza creare tende, tornare a vivere nel proprio spazio quotidiano. Certo: tu sai qual è la meta. Ma quella che raggiungi oggi non è definitiva. Al sorgere del sole si ri-parte senza sapere dove la sera pianterai la tenda. Ti rideranno dietro, ti oltraggeranno, ti giudicheranno imbecille perché non costruisci casa, non investi in immobili, non innalzi barricate e cancelli comandati a distanza. Rideranno perché per loro non hai le carte in regola.

“Dio irrompre dagli interstizi, e proprio nella folgorazione della sua emozionante imprevedibilità, come uno straniero. Il manifestarsi di Dio è certamente per la confidenza dell’uomo: è il lato pià singolare e commovente – inconfondibile – della rivelazione biblico – cristiana (…) Ci muovono eventi, che ci cambiano e di cui ci rendiamo conto solo molto tempo dopo. Forse risiede in questi uno degli aspetti più caratteristici del Vangelo: i discepoli, i testimoni, gli apostoli non smettono di capire a cose fatte quell oche è capitato loro. Il senso e l’intelligenza vengono dopo l’evento, come udire il colpo è successivo al vedere il gesto di colpire”
(P. A. Sequeri, Prefazione, in M. de Certeau, Lo straniero o l’unione nella differenza, Vita e Pensiero, Milano 2010)

Uno accetta di partire, ma almeno la direzione la sognerebbe. Abramo era pastore: fiutare i pascoli era la sua passione, il suo mestiere. Settantacinque primavere (e altrettanti inverni): tempo di testamenti da firmare e ricordi da custodire, tempo di passati, di nostalgie e di rimpianti. Dio irrompe nel suo quotidiano e gli fa fare esperienza dell’assurdo: settantacinque anni è l’età giusta per iniziare a vivere. “Vattene, Abramo, dalla tua terra”. Cioè: sii un senza terra! Zingaro “verso il paese che io t’indicherò”. Ma tu ci capiresti qualcosa? Noi siamo abituati che i giornali ci tengono che noi stiamo seduti. I grandi, tramite loro, per ogni problema ci forniscono in anticipo la risposta da dare: la scheda da votare, il partito da annettere, il film da guardare e quello da non guardare, il giornale da leggere, il telegiornale da ascoltare, l’acqua da bere, i cibi da deglutire. La strada da percorrere, il vestito da indossare, le parole da dire. Piaci loro seduto, perché ogni movimento è attentato all’autorità! Il Vangelo, dal canto suo, ti getta allo sbaraglio, “con una Parola come equipaggiamento”. Unica risorsa, unico appoggio: che consolazione! Eppure Abramo crede. Ma il tempo passa: eppure Abramo crede. Le possibilità si riducono: eppure Abramo crede. Dio sembra non mantenere le promesse: eppure Abramo crede. Sembra aver dimenticato le promesse: eppure Abramo crede. Crede. Non si lamenta. Non accantona il sogno. Non lo spaventa la derisione. Crede, perché ha intuito la tecnica di Dio: interviene quando tutte le possibilità dell’uomo sono bruciate. Mantiene con puntualità la Parola quando è passato il tempo, quando non c’è più nulla da aspettarsi. Come dire: “Ora, o stringi la mia mano o stringi la mia mano”. Questo è il paradosso incredibile e lacerante della fede. Se l’accetti scopri un Dio magnifico: un Dio che ti mette in piedi! Che risveglia, provoca, fa nascere, interpella, scuote, accende la creatività, spalanca gli orizzonti, dischiude i passi. Ti libera! Ha un difetto, però: scappa sempre avanti! Il paese promesso è oltre: vietata la nostalgia! Loro t’addottrinano, Lui ti svuota per far ardere la libertà! L’uomo è statico e ripetitivo, Dio è dinamico e sorprendente.
Forse per questo anche oggi è rimasto un po’ oltre.

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