Di nobile rimane la scusa apposta sul suo sito internet: sul prato dell’Olimpico rimane il gesto di un campione geniale steso dalla tensione di una competizione. Perchè dietro ogni finale – come all’angolo di ogni scelta da strappare nella vita – ci sta un misto di decisione e paura, frustrazione e serenità, spaesamento e coscienza. Francesco Totti è un genio del calcio italiano, ultimo di una serie bellissima che ha colorato i sogni e acceso le aspettative di migliaia di bambini. A Roma è un dio, di quelli della mitologia greca, ai quali ci s’appellava per ingraziarsi una buona sorte: fino a scorgere nelle tombe o sulle bare di defunti la bandiera giallorossa o una maglietta col suo autografo. Dalle tribune dello stadio fino al cimitero: e in un’epoca in cui Dio è stato messo “tra virgolette” seguirne le gesta per tanti è divenuta una sorte di fede. Che non ammette la conversione ma accetta il proselitismo. La domenica allo stadio lo speaker annuncia la formazione a metà, in attesa della risposta concitata: «Francescoooo…» e lo stadio esplode in un urlo «Tottiii!» Come in tutt’altre altre liturgie si invoca «Per le necessità della Chiesaaa…» e le vecchiette in coro «Ascoltaci, o Signore!» Ogni epoca ha le sue liturgie: come ogni epoca ha le sue responsabilità di fronte ai fedeli che annovera.
Chi conosce gli sport di squadra sa che una finale per sua natura raramente è bellissima: lo stile paga il prezzo ad una pressione incredibile che solo chi calpesta un prato verde o abita lo sport conosce. I nervi tiratissimi, l’adrenalina che viaggia a mille, l’eccitazione concitata. Ragion per cui basta un gesto minimo, una parola sibilata, uno sguardo per svegliare l’istinto brutale che l’uomo conserva: e quella rincorsa di Totti verso Balotelli è esempio. Il simbolo e l’emblema di uno scatto di nervosismo: lui, capitano di una Roma calcisticamente sua. Ma il genio è anche responsabilità e freddezza da mantenere: quella di chi, pur grande, si dimostra uomo nei momenti difficili da gestire. E come chi, al bivio di una crisi, si tira su le maniche e prende in mano la situazione con lucidità. Una finale da giocare o una cassa integrazione da gestire: basta poco per perdere la testa, per annebbiare anni di sacrifici, per far passare in secondo piano la passione di una vita. Ma basterebbe altrettanto poco per intravedere dentro la tempesta una fessura attraverso la quale scorgere un motivo per non soccombere o farsi soccombere.
Tredicesima espulsione in carriera finora – Baggio si bloccò a quota tre, Del Piero è a due -, uno sputo di troppo vestito d’azzurro e un po’ di provocazioni indirizzate ai cugini laziali in curva. Per un capitano non sono motivi d’orgoglio da custodire: ma nessun calciatore è uguale ad un altro. Cosicchè Totti ci piace ricordarlo così: a metà strada tra quel calcione sferrato a Balotelli in una finale nervosa e il cuore grande della generosità ai bisognosi. Controsensi di un uomo sempre in bilico tra l’applauso e il fischio. Capace di tirare fuori dal suo cilindro un cucchiaio d’autore, una barzelletta romanesca, una provocazione a tinte forti.
Perchè lo sport è un po’ l’emblema della vita: si suda e s’arranca, nella speranza di non essere mai provocati. Per non farsi fischiare per mancanza di stile.