L’immagine che traiamo dalla Prima Lettura, al di là di qualche espressione un po’ forte, è, nel complesso, di premura materna.
La domanda che Dio si fa, con il profeta, è struggente: «Che dovrò fare per te, Èfraim, che dovrò fare per te, Giuda? Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (Os 6,1-5). Dio è come madre (Is 66,13): come ogni madre è incredula, di fronte alla prospettiva che il figlio abbia fatto qualcosa di male e deve “farsi violenza” per esercitare l’autorità che è necessaria al figlio stesso, perché ogni lacrima versata da lui è motivo di dolore per lei. Eppure, la correzione è necessaria. Per il bene del figlio, innanzitutto. Quest’ultimo (Israele) è, infatti, incostante e si lascia attrarre dagli idoli, vivendo la fede non come risposta alla chiamata di Dio, bensì in modo superstizioso e superficiale, in una concezione di “do ut des” («io ti rendo culto, affinché Tu, Dio, faccia come voglio io»).
«Per questo li ho abbattuti per mezzo dei profeti, / li ho uccisi con le parole della mia bocca / e il mio giudizio sorge come la luce: / poiché voglio l’amore e non il sacrificio, / la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,1-6)
Mai brano veterotestamentario fu più vituperato ed impoverito di questo. Lungi dall’instillare la possibilità di “misericordia a basso prezzo”, di un Dio che perdona in modo immotivato, fino a calpestare la libertà dell’uomo di non scegliere Dio. In realtà questa frase è preziosissima ed interroga, ancora oggi, in particolar modo, l’uomo di fede, affinché egli non rimanga, per così dire, all’anticamera di Dio, ma abbia il coraggio di spingersi più in profondità. Interroga – e spinge – l’uomo anzitutto al desiderio della comunione con Dio. Il problema, infatti, non è aderire ad una pratica religiosa, quindi avere un culto e curarne la bellezza. Il vero problema è che il culto dev’essere secondo il cuore di Dio, dev’essere culto che piace a Dio, non il culto che è alla moda o che piace “alla gente”1. Parlare di amore, poi, rischia di generare nuove ambiguità. Forse, in questo, ci può venire in aiuto un santo antico quanto mai modernissimo: sant’Agostino sottolinea, infatti che «solo amando Dio, sorgente d’amore, potrai amare te stesso; e, solo così, puoi amare il prossimo come te stesso. Dio è amore (1Gv 4,8): se, dunque, ami, ama chi ti dà il potere di amare, e allora ami Dio. Se ami, ama colui che ti dona di poter amare, e ami Dio. Il principio per cui ami è infatti la carità» (cfr. S. Agostino, discorso 90A). Chi ama, del resto, non si accontenta del “sentito dire”, ma vuole anche conoscere nel modo più intimo possibile l’oggetto del suo amore. Ecco perché, dove l’amore è profondo, diventa profonda (in modo asintoticamente crescente) anche la conoscenza.
San Paolo, nella Lettera ai Galati, riprende il medesimo concetto, invitando a non aderire unicamente ad una “forma” religiosa, ma a lasciarsi guidare dallo Spirito di Cristo, che va oltre ad essa (va, quindi, più in profondità, non significa che la esclude, perché Cristo sottolineò – Mt 5,18 – che “neppure un iota” della Legge sarebbe caduto).
L’immagine che, però, più di tutte , fornisce realismo e concretezza a tutto ciò è proprio il brano evangelico. Gesù, come spesso accade, è invitato a mangiare presso la casa di Simone, il fariseo. C’è un ingresso, che, inizialmente in sordina, altera il clima della tavolata, a partire dall’ospite stesso, a cui Cristo chiede di effettuare una valutazione, a partire da una semplice storia, con due debitori, con importo diverso, salvo poi ritornare all’attualità in corso:
«Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato».
A fronte di una donna che dimostra il proprio amore, noi siamo “inchiodati” alle nostre omissioni, con Simone. Come dice un proverbio, capita spesso con le persone, talvolta anche con Dio, che “la confidenza fa perdere la riverenza”. Diamo – così facendo – tanto, troppo per scontato. Soffochiamo l’amore e ci togliamo la possibilità di essere perdonati, che è – forse – l’unico modo per imparare – davvero! – ad amare e, quindi, a perdonare, secondo il cuore di Dio. Se siamo troppo concentrati su noi stessi, rischiamo di diventare noi stessi la misura dell’amore, che, quindi, rischia di essere “poca cosa” perché il contenitore a cui attingiamo è ristretto. Se invece attingiamo in Dio e ci ispiriamo al Suo amore, allora ci sorprenderemo ad andare oltre i nostri schemi, avvicinandoci al sogno d’amore di Dio con l’uomo.
[Riflessione presente su solidando.net]
1 Per un approfondimento sull’argomento: Introduzione allo spirito della liturgia, J. Ratzinger, S. Paolo, 2014, in part. primo capitolo.
Fonte immagine: www.alighthouse.com