Il suo sogno l’ha avuto. L’ha desiderato con tutto il cuore, l’ha strappato con le unghie e coi denti e infine l’ha ottenuto. In lista coi normodotati, quelli con le gambe tutte intere. Nella squadra del Sudafrica, nella batteria dei 400m piani, la sua specialità. Corre, Oscar, corre fino alla semifinale. E arrivato lì, corre ancora. Alla seconda frazione, arranca già e temo il peggio. Temo possa fermarsi. Invece no: onora fino in fondo la propria Olimpiade, fatta di sorrisi e sudore, di battaglie legali, di presunti vantaggi, di carte bollate e di avvocati, di fiducia nella tecnica ma anche nella costanza dell’uomo. Arriva ottavo, cioè ultimo nella propria batteria, ma arriva. Porta a termine la sua gara, Oscar. Sembra quasi frastornato, l’attesissimo sudafricano di vaghe origini toscane. Taglia il traguardo e si guarda intorno, un po’ confuso: con un risultato che era già in partenza superiore alle aspettative, non sa che fare. E, nell’incertezza, rispolvera la sua arma migliore: un gran sorriso, anche se un po’ provato dallo sforzo; inutile negarlo, l’agonismo e i ritmi serrati di un’Olimpiade nulla hanno a spartire coi ritmi, la possibilità di recupero e forse persino la mentalità che caratterizzano una Paralimpiade. Pare rendersi pienamente conto di tutto questo solo al termine della semifinale dei 400 metri olimpici di Londra, pochi secondi dopo aver concluso l’ennesima. Contro il tempo, contro i pregiudizi, contro la fissità, contro l’incapacità di guardare. E se qualcuno pensa che Oscar abbia corso contro qualcuno, basta guardarlo in faccia per capire che innanzitutto corre per divertirsi. Corre per avere un’altra chance, sempre una in più. Corre perché ci ha preso gusto: lui che aveva iniziato solo per recuperare da un infortunio, lui, che giocava a rugby e pallanuoto!
E, alla fine della sua gara, accade l’inverosimile. Il vincitore torna sui suoi passi. Kirani James gli si avvicina e, con garbata decisione, esprime anche lui un desiderio: vuole scambiare la sua pettorina con quella di Oscar. In seguito spiegherà che ha grande rispetto per Oscar, per lui è soltanto un ragazzo al pari di tutti gli altri. Sembrano cose dell’altro mondo: il vincitore che insegue il perdente, l’ultimo della batteria, per averne un souvenir. Credo che in quest’immagine paradossale sia racchiuso il senso della corsa di Pistorius, forse frainteso da molti, ma mai dal sudafricano, che fino all’ultimo è rimasto fedele a se stesso.
Perdente non è chi arriva ultimo, ma chi si siede e guarda gli altri correre.
Questo gli disse sua madre. E a questa legge estremamente olimpica mai contravvenne il buon Oscar, anche quando chiunque sarebbe stato tentato di farlo: di fronte al pensiero di sfigurare, di fronte alla possibilità di essere ultimi in assoluto, i più lenti di tutti. È stato in questa semifinale che Oscar avrebbe potuto avere un duro colpo. Sarebbe stato comprensibile: spinto da tanti, inviso ad altri, ma in ogni caso, sempre sotto i riflettori (cosa che non sempre aiuta). E invece, con la complicità del vincitore, ha firmato ancora una cartolina olimpica, sottolineando cosa importi davvero.
Ogni atleta sa quali sono le proprie verosimili possibilità, sa quali sono i propri tempi abituali. Ma sa anche che l’adrenalina olimpica costituisce quel pizzico d’imponderabile che può sparigliare le carte in tavola. Non c’è sorpresa nell’eliminazione in semifinale. Ce n’è stata piuttosto – e giustamente – per l’ammissione ad essa.
Ma vedere vinto e vincitore scambiarsi i ruoli non è stato solo un simpatico siparietto olimpico: arriva a toccare il cuore stesso dello sport e dell’agonismo. Superiore a sconfitta e vittoria c’è la prestazione personale, specie in sport come questi. Lo so, sembra egoistico parlarne in questi termine, ma è l’unico modo per comprendere meglio cosa significhi. In una competizione ci si misura con gli altri, in termini assoluti. E quindi, in termini assoluti si misura chi lancia più lontano, chi salta più in alto o più in lungo, chi corre più veloce eccetera. Ma la competizione con l’altro non tiene conto della situazione personale. Per chi a fatica ha raggiunto i tempi di qualificazione, arrivare in semifinale è soddisfazione non minore di quella che avrebbe chi, abituato a primeggiare, ottenga una medaglia di bronzo. Non c’è delusione per chi ha fatto il massimo possibile consentito dalle proprie forze, in quel preciso momento e occasione. A chiunque fa piacere vincere e nessuno baratterebbe una vittoria con una sconfitta: ma quando la conclusione dell’avventura olimpica avviene dopo aver raggiunto il massimo risultato possibile, non s’incontra frustrazione, perché il cuore è sereno e la coscienza pulita. Si torna a casa con emozioni nuove, la consapevolezza di poter migliorare e nuovi stimoli che ti spingono a farlo. E allora, anche un apparente arresto nella corsa, si rivela solo una necessaria ri – partenza, verso nuovi obiettivi.