In una chiesa di San Cristoforo (Cogollo del Cengio, VI) gremita di gente, accorsa dai comuni vicini, ma anche da varie parti del Nord Italia, mercoledì sera ha avuto luogo la presentazione ufficiale de “Il pomeriggio della luna” (Aracne, 2016), ultima fatica letteraria di don Marco Pozza. Con un altare arricchito da una scenografia scarna ma curata, con l’ausilio del coro “Giovani Voci” di Cogollo e di un sapiente utilizzo di luci a creare uno spazio scenico ben delineato, è stato creato un ambiente familiare e raccolto, che ha consentito di essere trasportati, insieme con l’Autore, nel mondo di Elio e Luna che, nel corso della serata, abbiamo imparato a riconoscere come lo spazio della nostra quotidianità, o, forse – meglio! -, di quelle pagine della nostra storia verso le quali abbiamo bisogno di realizzare ulteriore chiarezza per poter assaporare anche noi la luna, di pomeriggio.
A presentare la serata, il parroco don Luigi Gatto, che introduce una delegazione del Consiglio Comunale dei Ragazzi di Lugo – Calvene (VI), capitanata dal sindaco Camilla Maino, facendoci ben sperare in una politica che sappia trasmettere ancora entusiasmo e dedizione.
Dopo un dialogo iniziale tra Elio (impersonato da don Marco) e Luna (impersonata da Sandra), sul palco sono arrivati Katia e Niccolò (quest’ultimo preziosissimo, in seguito anche nell’arduo compito di portare sull’altare – nell’ordine, Enrico, papà Franco e don Leopoldo, attualmente vicario episcopale, che ci ha portato il saluto del vescovo, mons. Claudio Cipolla, e don Roberto da Boara Pisani); dopo un breve dialogo con il bambino, la madre gli (ci) ha raccontato la romantica storia del sole e della luna, anch’essa presente nel romanzo.
La luna di pomeriggio è in cielo, ma non brilla: s’intravvede appena, impalpabile e fragile come un’ostia. Talvolta, anche l’uomo è così: troppo indaffarato nel suo piccolo mondo, troppo alla ricerca di cose che non gli sono veramente utili, ma per le quali perde le proprie giornate e talvolta anche la propria vita, rischiando di perdere per sempre le persone a lui più care, nella rincorsa di gioie effimere, legate al Dio Quattrino. Eppure, proprio in quei momenti, l’uomo necessita, più che in ogni altro, di essere amato: come la luna che, nel pomeriggio, richiede la nostra attenzione perché ancora non sa se la notte riuscirà a splendere.
Questa è la testimonianza di Enrico, che, dopo averci catturato con la sua testimonianza tratta dal docufilm “Mai dire mai” di Andrea Salvadore, ci onora con la sua presenza sul palco e con la sua viva voce.
Entriamo quindi nel vivo del romanzo, grazie alle domande di Maria Luisa (Il Giornale di Vicenza). All’interno del romanzo ci sono tante storie reali, rilette attraverso gli sguardi giovani dei due protagonisti: la rosa d’inverno, ad esempio, è metafora di Enrico e della sua esistenza dis-graziata. È troppo banale amare le rose a maggio: la vera sfida è coglierne le potenzialità in inverno, quando si vedono solo le spine da sotto la neve. Così è stato per Enrico, accolto “come il figliol prodigo” (parole sue) da don Leopoldo, presso la parrocchia di Campodarsego (PD). Prima di conoscere loro e le loro storie, don Marco confessa di aver “maledetto le spine”, mentre ora le “benedice, perché custodiscono le rose”.
Don Marco non teme di mettere a nudo la propria umanità, rivelando di essersi innamorato tante volte, nella propria vita e sottolineando di non viverlo come un problema: i preti rimangono uomini, con inalterato bisogno d’amore, all’interno del ministero del sacerdozio. Anzi, proprio la conoscenza del mondo femminile e la presenza di amicizie femminili solide e sincere hanno contribuito a custodire il suo cuore di sacerdote e di uomo.
L’Autore confessa, inoltre, quanto scrivere sia per lui vitale e liberante (“non scrivo per vivere, vivo per avere qualcosa di cui poi poter scrivere”, dice di sé), quasi una terapia, tanto che questo romanzo può essere considerato il modo che ha scelto per vivere il Giubileo della Misericordia, facendo luce sulle pagine più impegnative e “irrisolte” della propria vita.
“Tieniti le gatte morte, che alle leonesse ci pensano i leoni” è una frase in un certo senso autobiografica: solo maturando, è riuscito a comprendere la preziosità di donne – salvavita, capaci di staccare la spina prima che avvenga il cortocircuito. Una di queste è senz’altro mamma Ivette, che ha saputo guardare con amore la “luna di pomeriggio”, (frase “rubata” ad Italo Calvino, da cui proviene il titolo del romanzo), quando papà Franco è tornato a casa, dopo aver perso il lavoro e, rimboccandosi di nuovo le maniche, dopo otto ore di lavoro, ha saputo prendere per mano il nucleo familiare e, portatolo al desco, invitarlo a rialzare il capo, per riprendere, tutti insieme, a camminare nella Vita.
Un episodio che, purtroppo, sentono vicino tante famiglie, ancora oggi: l’augurio è che, anche tramite queste pagine, ciascuno di noi possa guardare con speranza fattiva al futuro, nella consapevolezza che Dio nasce dentro alla melma della storia umana, tra omicidi, stupri, furti e rapine, senza vergognarsi di noi. A noi rimane, tuttavia, il compito di chiedere la grazia di «vergognarci dei nostri peccati» (Papa Francesco, meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Martae), perché quello è il primo passo per prenderne le distanze. Il secondo, forse il più difficile è poi, non solo perdonare, bensì, soprattutto, perdonarsi: perché tutte le persone sbagliano, quelle belle sanno chiedere scusa (Il pomeriggio della luna, pag. 215).
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