Hanno avuto giustamente rilievo, nei giorni scorsi, i fatti di sangue accaduti nella chiesa copta di Alessandria. Poi, altro sangue, altra violenza, altri venti di guerra ne hanno un po’ oscurato la memoria ed i principali media non hanno ulteriormente approfondito le conseguenze dell’accaduto. Forse perché l’Egitto non è poi così vicino, forse perché non è stato considerato abbastanza emotivamente coinvolgente per muovere le nostre conoscenze. Nonostante, almeno quanti si dicono cristiani, dovrebbero sentirli vicini, in quanti fratelli nella fede verso lo stesso Dio, quel Gesù di Nazareth, nella memoria del quale sono morti, durante la celebrazione del primo e generalmente più affollato dei riti della Settimana Autentica, quella che noi ricordiamo, familiarmente, come “Domenica delle Palme”.
Probabilmente, non sarebbero dello stesso avviso le persone coinvolte. E, in particolare, i protagonisti di una diretta televisiva con la vedova del custode della cattedrale, una delle vittime di quell’attentato.
«Non sono arrabbiata con chi ha compiuto questo gesto, voglio dirglielo: possa Dio perdonarti. Non sei nel giusto, figlio mio, credimi, non la pensi nel modo giusto. Credimi non sono arrabbiata. Lui ora non c’è più, è morto. E io chiedo a Dio di perdonarli e di aiutarli a ravvedersi. Pensateci! Pensateci! Credetemi, se ci pensassero capirebbero che non abbiamo fatto nulla di male a loro. Pensateci ancora, cosa state facendo, è giusto o sbagliato? Ripensateci ancora. Possa Dio perdonarvi e noi anche vi perdoniamo. Credetemi, vi perdono. Avete portato mio marito in un posto che non avrei mai potuto nemmeno sognare. Credetemi, sono orgogliosa di lui. E avrei voluto essere lì al suo fianco, credetemi, e ringrazio».
Non una parola di odio, nessun desiderio di vendetta, nessuna rivalsa sui carnefici: una tranquillità lacerante nelle espressioni sincere, da cui tuttavia traspare un dolore intenso e profondo, inevitabile fardello di chi ha subito un lutto recente, di cui fa ancora fatica a capacitarsi.
L’espressione del giornalista Amr Adeeb, uno dei giornalisti musulmani più noti in Egitto dice tutto.
Ascolta, attonito, l’intervista della vedova di Naseem Faheem, custode della cattedrale copta di Alessandria d’Egitto, rimasto ucciso, insieme con altri fedeli, nell’attentato della Domenica delle Palme. Faheem aveva bloccato il kamikaze, prima che questi entrasse in chiesa: l’attentatore si era fatto esplodere vicino a lui, che ha fatto da scudo con il proprio corpo, riducendo così il numero delle vittime.
Il silenzio si fa pastoso, concreto, tangibile. il giornalista tentenna, incredulo, visibilmente scosso, anzi, quasi sotto shock per quanto ha appena udito: pare faticare a trovare le parole. A seguire, dopo istanti di silenzio denso come un macigno, un commento, stupito, ammirato, annichilito: “Gli egiziani copti non sono come noi. Gli egiziani copti sono fatti d’acciaio”.
C’è un’ammirazione, mista ad incredulità, espressa nell’esplicita ammissione, sincera, che, in un’occasione similare, egli non sarebbe sicuramente in grado di reagire in modo assimilabile.
Parla, quasi balbettando, come se si trattasse di un miracolo avvenuto sotto i suoi occhi, tanto la forza di questo perdono traspare come un evento al di là di ogni immaginazione.
Cristo non è il Dio della sofferenza, perché non si esaurisce nella morte in croce: è un Crocifisso, che è Risorto. Tuttavia, ci accompagna nella sofferenza, non ci abbandona nel momento del dolore e sa che cosa significhi soffrire. Ci prende per mano, proprio nel momento di maggiore buio, fino a che possiamo almeno immaginare che ci sia qualcosa oltre quel dolore lacerante, che ci obnubila i sensi e non ci lascia ragionare. Non si tratta solo del dolore fisico, spesso al centro delle devozioni pietistiche. La vera sofferenza del Cristo è stato sperimentare l’abbandono e la solitudine, forse persino il silenzio di Dio: è in questo, soprattutto, che lo sentiamo profondamente nostro fratello, nell’umanità della carne, nella lacerazione della ragione, nell’incomprensione delle motivazioni più profonde di un destino che vorremmo definire “ingiusto”. Morire in una chiesa, presa d’assalto con la violenza, in un giorno che avrebbe dovuto essere di festa è forse giusto?
Non esiste solo la giustizia, a fronte di una reciprocità tanto spesso invocata, talvolta anche a sproposito, questi pochi secondi di trasmissione ce lo testimoniano. Anzi, l’episodio citato sottolinea come sia proprio la differenza di una testimonianza veramente cristiana, totalmente assente di reciprocità, a colpire chi ha una fede diversa, lasciando senza parole per la grandezza di una reazione simile. Del resto, in cosa possiamo di essere “ad immagine e somiglianza di Dio”, se non nel tentativo, non sempre riuscito, di imitarLo nella capacità che gli è propria, cioè il il perdono?
No, non a tutti è chiesto il martirio del sangue e, a maggior ragione, tale scelta può essere cercata, perché «non è il Dio dei morti, ma dei vivi» (Mt 22, 32). A molti di noi, è però, probabilmente, chiesto il “martirio quotidiano” della perseveranza di fronte ai piccoli sgarri: risatine, sguardi di sottecchi, insulti più o meno velati, accusa di appartenere alla categoria dei ladri, alla semplice ammissione del proprio stato di prete. E, se il martirio non è per tutti, a tutti però è richiesta la fedeltà al proprio nome cristiano e testimonianze come questa non possono che interrogare anche noi, facendoci domandare, nel profondo, fino a che punto siamo disposti a fare sul serio con chi, dall’eternità, non ha mai smesso di prendere noi sul serio.
L’augurio è che possiamo anche noi svegliarci dal torpore in cui molto spesso ci ritroviamo a sonnecchiare, di una fede spenta, smorta, come un lucignolo fumigante.
Forti della consapevolezza che Cristo, il servo di Dio preannunciato dalle parole del profeta Isaia, «non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta» (Is 42, 3), possiamo ancora pensare che ci sia speranza per noi, per la nostra ignavia, per la nostra indifferenza e per la nostra mancanza di fede, troppo spesso ridotta a mero tradizionalismo, incapace di una vera scelta, vissuta e convinta, di fede.
Fonti:
Bussola Quotidiana, Benedetta Frigerio
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