Col mestiere più antico del mondo cucito addosso: quello d’essere pastori e condottieri d’un gregge. Nomadi per passione, a tramandarsi di generazione in generazione l’antico legame con la terra, gli armenti e le vecchie usanze d’un tempo: giorni, stagioni, tosature. I pastori e la transumanza, una specie di liturgia che nelle nostre terre profuma di antiche tradizioni, di paesi vestiti a festa al passaggio delle bestie, di uomini capaci di fiutare sempre terre nuove in cerca di erba fresca. I pastori migliori sono quelli che lambiscono i confini, che osano sulla schiena della montagna, che ardiscono condurre il gregge laddove nessuno è ancora passato. Uomini che sono oggi presenze sempre più stonate nell’epoca della pulizia, dell’igiene e dei profumi griffati d’alta moda.
E’ notizia di questi giorni che ad un giovane pastore – ci piace sottolineare quell’aggettivo, simpatico imbarazzo nell’epoca della tecnologia e del virtuale – della Valle dei Mocheni, Matteo Froner, un sindaco ha appioppato una multa esemplare per aver infranto le regole col passaggio del suo gregge. Lungi dall’entrare in merito alla giustizia di quell’applicazione, risplende come un emblema quella tirata d’orecchi. Il gregge sporca, le pecore puzzano, gli armenti infangano le strade; i pastori odorano di capre, gli zoccoli rischiano di rompere l’asfalto, quei campanacci irritano la quiete pubblica. Il pastore ne soffre, quelle pecore sono la sua vita, s’addentra nel suo silenzio e varca altre terre, batte altre strade, abita altri campi. “Ci piace non essere visti” – confida quel pastore: è la discrezione di chi è consapevole della lordura di quegli animali, dell’imbarazzo della loro natura, dei disguidi che arreca. Eppure è la sua passione, la sua vita, la ragione che illumina d’immenso il suo vagare.
Lui è pastore di un gregge reale. Eppure ci sono altri pastori che volentieri s’accuserebbe di sporcare il suolo pubblico, d’infastidire il pensare collettivo: sono quei pastori – preti, educatori, scommettitori sull’umano – che non si vorrebbe far parlare, che li si vorrebbero relegati nelle terre lontane, fuori dalle strade perchè i loro greggi puzzano. Sono i condottieri di greggi di profughi e di stranieri, d’immigrati e di clochard, di rifugiati politici e di gente dall’accento foresto. E’ il gregge dei carcerati, pecore la cui presenza è così fastidiosa da impedire loro a tutti i costi di battere ancora le strade di paese, di abitare le loro terre d’un tempo, di sostare qualche notte in vista di un ulteriore viaggio. L’esistenza stessa dell’uomo è una transumanza (“passare da una terra all’altra”): ci si sposta di terra in terra, di paese in paese, c’è chi varca quotidianamente una frontiera per andare a lavorare, la vita è una somma di mille passaggi. Eppur sembra quasi che certe transumanze le si voglia bloccare a tutti i costi. Che certi greggi debbano – chissà per quale motivo – essere condannati all’estinzione, relegati in terre che nessuno vede, ammantati di vergogna addosso. Pena il pubblico ludibrio d’una multa che complica il tutto.
Il giovane pastore non s’arrende, anche se “seguire le pecore sta diventando difficile (…) Non resta che passare, per quanto possibile, inosservati”. Inosservati, beffeggiati, derisi, finanche multati: ma nessun divieto sarà mai capace di staccarli dal loro gregge, dai loro uomini, dalla loro missione ch’è poi una passione divenuta uno splendido mestiere. Il cui odore – da qualcuno mal digerito – da altri è stato additato come l’emblema della fedeltà, dell’amore: “siate pastori con addosso l’odore del gregge” – raccomandò papa Francesco ai sacerdoti nell’ultimo Giovedì Santo. Gente che puzza per aver abitato in mezzo alle bestie, agli uomini, alle macerie: eppur quell’odore da qualche parte è un balsamo d’affetto, un segno d’appartenenza. D’amore.
(da Il Mattino di Padova, 9 marzo 2014)