«Cara Olga, siamo inchiodati al paradosso fra il mondo disperato e l’Essere pieno di senso»di Vaclav Havel, da “Avvenire”, 26 gennaio 2010, pagina 25
Cara Olga,
fra le migliaia di avvenimenti stupefacenti che formano il miracolo dell’Essere e della sua storia, l’evento che qui ho definito la costituzione o la genesi dell’«io» umano, ha indubbiamente un significato rivoluzionario. È un evento cioè che, a differenza di tutti gli altri, tocca in modo speciale l’essenza medesima dell’Essere, l’«essere dell’Essere». L’uomo non è semplicemente un’entità fra le altre entità, un qualcosa di distinto rispetto alle altre, ma è un’entità apertamente «differente». Non si differenzia dalle altre unicamente per ciò che è (per il fatto di essere essenzialmente più strutturata, ad esempio), ma soprattutto per come è, per il fatto che il suo stesso essere è sostanzialmente diverso da tutto quello che esiste al di fuori di lui. (…)
Essere gettati nel mondo ci rivela il nostro stato di separazione; essere gettati nell’origine dell’Essere, al contrario, risveglia in noi la trascendenza di sé così essenzialmente umana: il desiderio di oltrepassare tutti i propri orizzonti per attingere di nuovo la perduta pienezza dell’Essere, «possederla» di nuovo (e in questo modo superare il proprio stato di separazione), sfociando nell’esperienza della «quasi-identificazione» quale contatto vigile, cioè totalmente consapevole di sé, con «l’Essere tout court», principio misterioso ed essenza di tutto ciò che è. (…)
Dietro a tale concezione vi è una percezione di sostanziale ambiguità, di annientamento, della natura contraddittoria e paradossale della condizione dell’umana. La nostra «alterità» ontologica esprime soprattutto questo: solo l’uomo, ad esempio, si domanda quale sia il significato, ma unitamente a ciò non può mai giungere a una risposta soddisfacente (altrimenti significherebbe per lui non essere ciò che in realtà è, ossia, «essere separato dall’Essere»); soltanto l’uomo sperimenta, o meglio, attraverso la propria esperienza costituisce il mondo come qualcosa nel quale è stato gettato e nel quale è condannato a vivere, eppure, contemporaneamente, lui solo sa che soccombendo a tale esistenza nel mondo perde irrimediabilmente se stesso; lui solo è in grado di sperimentare in modo consapevole l’Essere quale reale sfondo a tutto ciò che esiste; tuttavia lui soltanto è, nello stesso momento, fatalmente al di fuori di questo Essere e condannato a non esservi mai pienamente all’interno.
Ciò nonostante, il paradosso della natura contraddittoria dell’essere umano è che in essa si trova, contemporaneamente, la fonte di tutta la sua bellezza e della sua miseria, la sua tragedia e la sua grandezza, lo slancio drammatico e il continuo fallimento. Ritengo che le rappresentazioni degli archetipi religiosi rispecchino in maniera precisa le dimensioni dell’essenza ambigua dell’umanità: dall’idea di paradiso, attraverso «reminiscenze» di una perduta partecipazione all’integrità dell’Essere, all’idea della caduta del mondo quale atto peculiare dello «stato di separazione» (non è infatti l’albero della conoscenza la «cognizione di sé» che ci separa?), all’idea del giudizio finale quale confronto con l’orizzonte assoluto del nostro relazionarsi, fino all’idea della salvezza come trascendenza suprema, la «quasi-identificazione» con la pienezza dell’Essere al quale l’umanità tende costantemente.
Il fatto, poi, che tutti gli effimeri tentativi dei fanatismi ideologici di organizzare il «paradiso in terra» alla fine sfocino inevitabilmente in un inferno in terra, è reso più che chiaramente dall’evocazione che il regno di Dio non è «in questa terra». In realtà: una vita su questo mondo che sia relativamente sopportabile può essere garantita unicamente da un’umanità orientata «al di là» di questo mondo, un’umanità che – in ogni suo hic e con ogni suo nunc – si relazioni con l’infinito, l’assoluto e l’eternità. Un orientamento incondizionato al hic e al nunc, per quanto sopportabile possa essere, trasforma senza speranza il «qui» e «adesso» in abbandono e disperazione e infine lì tinge del colore del sangue.
Sì: l’uomo è inchiodato – come Cristo sulla croce – a un’intersezione di paradossi: teso fra l’ascissa del mondo e l’ordinata dell’Essere; da una parte, trascinato in basso dalla disperazione di un’esistenza nel mondo e dall’irraggiungibilità dell’assoluto, dall’altra, egli sta in equilibrio tra il tormento di non conoscere la propria missione e la gioia di portarla a compimento, tra il nulla e la pienezza di senso. E come Cristo è di fatto vittorioso grazie alle sue sconfitte: l’uomo, attraverso la percezione dell’assurdo, una volta ancora trova il significato; attraverso il proprio fallimento riscopre nuovamente la responsabilità personale; attraverso la sconfitta di alcune condanne, vince perlomeno su se stesso (come oggetto delle tentazioni terrene); attraverso la morte – la sua ultima e maggiore sconfitta – trionfa definitivamente sulla propria disgregazione: imprimendo per sempre il proprio profilo nella «memoria dell’Essere», ritorna infine – senza rinunciare a niente della propria «alterità» – nel grembo dell’Essere integrale.
La medesima cosa vale – ciò va aggiunto per una questione di ordine – per queste mie riflessioni: esse sono una sconfitta perché non ho né scoperto, né espresso niente che non sia stato da tempo scoperto ed espresso cento volte meglio, eppure sono allo stesso tempo una vittoria, per essere almeno riuscito attraverso di esse, se non altro, (superando ostacoli più banalmente esteriori e profondamente interiori che non augurerei a nessuno che voglia scrivere), a sentirmi meglio ora di quando ho iniziato. È strano, ma forse adesso sono persino più felice di quanto lo sia stato negli ultimi tempi. In breve, mi sento bene e ti voglio bene.
Un bacio da Vasek (4 settembre 1982)
L’uomo del paradossoUno dei costanti paradossi presenti nella vita di Vaclav Havel è di essere stato costretto, dalle circostanze storiche, ad esser ciò che non ha mai voluto essere o per cui non ha mai avuto alcuna particolare disposizione.
Scorrendo la biografia dell’attuale presidente della repubblica cecoslovacca, infatti, non si può non condividere la lapidaria conclusione che ha dato di se stesso: “Metto il naso in tutto quello che posso e non sono esperto di niente in particolare” : “A volte faccio della filosofia [scrive il suo primo libro di filosofia a 13 anni – nda], ma sono forse un filosofo? La mia cultura filosofica […] è più che lacunosa e assolutamente frammentaria. Di tanto in tanto scrivo di letteratura: se c’è qualcosa che di sicuro non sono, è il critico letterario. A volte mi occupo persino di musica, eppure il mio senso musicale può essere soltanto fonte di ilarità generale. Non sono un vero specialista nemmeno in quello che ritengo la mia principale e originaria professione, cioè il teatro”.
Nato a Praga da Vaclav M. Havel e da Bozena Vavreckova il 5 ottobre 1936 (suo padre progetta la famosa città-giardino Barrandov, dove verranno impiantati importanti studi cinematografici), sin da bambino, a causa delle sue origini medio-borghesi, vive quello che successivamente definirà l’esperienza dell’assurdo: è lo sguardo dall’esterno, dello spettatore che osserva la vita cui non partecipa perché non vi è accolto, e ne riscontra l’assurdità, la perdita di significato. Tale esperienza, protrattasi con l’instaurazione in Cecoslovacchia del regime totalitario comunista e, dopo la breve pausa della Primavera, fin negli anni della normalizzazione di Husak, costituisce come il fil rouge di tutta la sua produzione artistica e filosofica.
Terminata nel 1951 la scuola dell’obbligo, Havel è costretto a trovarsi un lavoro perché, sempre a causa della sua posizione sociale e in pieno regime comunista, non può proseguire gli studi superiori. Nel 1954, al termine dell’agognata maturità conseguita al liceo serale, Havel cerca di iscriversi invano in facoltà ad indirizzo umanistico finché, per evitare la chiamata alla leva militare, si immatricola “per disperazione” alla facoltà di economia dei trasporti. Durante il servizio militare, Havel ha l’opportunità di conoscere il teatro più da vicino nonché di mettere in scena con amici commilitoni alcune opere coraggiosamente critiche, finché esperti dell’ufficio politico dell’esercito, dopo alcune analisi, giungono alla giusta conclusione che i giovani drammaturghi li stavano semplicemente prendendo in giro.
Intanto Havel si lega sentimentalmente con Olga Splíchalova, una ragazza di origine proletaria, “ciò – confesserà poi – di cui avevo bisogno: la risposta mentale alla mia incertezza mentale, un sobrio revisore delle mie folli idee, un sostegno privato alle mie avventure pubbliche”. La sposerà nel luglio del 1964, e lei sarà sempre al suo fianco nell’impegno per i diritti umani.
Nel 1958 a Praga, nel cuore stesso della capitale, viene fondato il teatro Na Zabradlí, “Alla ringhiera”, che sarà portatore di un rinnovato entusiasmo nella recita e nella ricerca della libertà, in un’atmosfera mista di humor e intelligenza, senza prendere tutto quanto troppo sul serio, secondo la massima del direttore, Grossman: il teatro va fatto bene, ma non lo si deve prendere troppo sul serio. Lo stesso Havel riprenderà questa Weltanschauung in un suo scritto: “Chi si prende troppo sul serio finisce per diventare ridicolo, mentre chi riesce sempre a sorridere di se stesso non può diventare realmente ridicolo” .
La Primavera di Praga coglie Havel, come molti, di sorpresa: durante quei mesi esaltanti e turbinosi egli opta per la possibilità di fondare un partito di tendenza democratica, dignitoso partner del partito comunista, e non cessa di essere vivo testimone di quanto accade: “Ho sempre concepito la mia missione come un dovere di dire la verità sul mondo in cui vivo”. Il 21 agosto, giorno dell’invasione della Cecoslovacchia da parte degli eserciti del Patto di Varsavia, Havel con amici è a Liberec, nella Boemia settentrionale e, pur senza volerlo, si trova coinvolto nella resistenza, operando presso la radio locale per invitare la gente a non cedere ai soprusi e partecipando a numerosi dibattiti. Il giudizio sul ’68 praghese è lucidamente espresso ne «Il potere dei senza potere».
Charta ’77 sorse ufficialmente nel dicembre 1976 ad opera di Havel, Nemec, Komeda, Uhl, Vaculík, J. Hajek, Mlynar, Kohout (che dà il nome all’iniziativa, nome simbolico, in quanto era l’anno dedicato ai diritti dei prigionieri politici). E’ l’atto di nascita della Charta, “comunità libera informale ed aperta di uomini di diverse convinzioni, diverse religioni e diverse professioni, legati dalla volontà di operare individualmente e insieme per il rispetto dei diritti civili ed umani”.
Il 29 maggio 1979 Vaclav Havel viene arrestato insieme ad altri 15 membri del vons, incriminato per attività sovversiva e condannato in ottobre a 4 anni e mezzo di carcere senza condizionale, da scontare nella prigione di Hermanice.
In carcere ai detenuti è consentito scrivere ai propri famigliari non più di quattro pagine alla settimana, senza virgolette, sottolineature o commenti umoristici: “Si trattava – commenta Havel – in verità anche di uno sport. Ci riuscirà di raggirare il comandante o non ci riuscirà?”. Ne uscirà il libretto «Lettere a Olga», inizialmente circolante nel samizdat, contenente 164 lettere indirizzate alla moglie, che ricoprono l’arco di tempo dal giugno ’79 al settembre ’82; esse forniscono una nuova testimonianza di come la verità possa trionfare sulla menzogna anche nell’apparente sconfitta. Viene rimesso in libertà il 7 febbraio 1983, alcuni mesi prima della scadenza della condanna, per problemi di salute.
Negli anni successivi, Havel è sempre in primo piano in tutti i gesti in difesa dei cittadini perseguitati dal regime comunista, nonostante debba subire le vessazioni e la sorveglianza delle autorità; né abbandona la sua vocazione teatrale. Egli rilancia il “coraggio di essere folli: […] ossia cercare con tutta la serietà possibile il cambiamento di ciò che vien definito immutabile”. Ma il “folle” drammaturgo non potrà recarsi a Rotterdam per ritirare di persona il premio, in quanto teme giustamente di venir privato della cittadinanza e di non poter più rientrare in patria.
Nell’aprile 1990 la Cecoslovacchia ormai libera accoglie la prima visita di un Papa nella sua storia: “messaggero d’amore” in un paese devastato dall’odio, “simbolo vivo della cultura” in un paese devastato dall’ignoranza di stato, “messaggero della pace” in un paese lacerato dalle divisioni. Nell’omaggio a Giovanni Paolo II, portato il 21 aprile nelle antiche sale del Castello di Praga, Havel ricorda come il pontificato del Papa sia sempre stato strettamente unito all’idea della difesa dei diritti dell’uomo, alla valorizzazione della dimensione culturale dell’esistenza, alla “pura fonte di vera responsabilità umana, cioè la sua fonte metafisica”. Il Papa saluta nel presidente “un uomo che arricchisce la cultura politica contemporanea dell’Europa, ponendo l’accento sui valori che sono così vicini a noi cristiani”.
Il 20 luglio 1992 abdica dalla funzione di presidente federale dopo la decisione comune (5 luglio 1992) di sciogliere la federazione. Dopo la nascita della Repubblica ceca indipendente, il 26 gennaio 1993 viene eletto suo primo presidente (giuramento 2 febbraio). Nel gennaio 1996 muore la moglie Olga; in autunno deve sottoporsi ad operazione chirurgica per serie complicanze polmonari, recidive negli anni successivi. Nel 1997 si sposa con l’attrice Dagmar Veskrnova. Il 20 gennaio 1998 è stato rieletto presidente della Repubblica ceca. Il mandato scade nel febbraio 2003.
Liberamente ridotto da: charta77