lupoRigoroso, severo e caustico. Ricevendo il Pontificio Consiglio della Cultura l’8 marzo 2008, Benedetto XVI ha detto le cose come stanno. Poteva cavarsela con qualche banalità modernista e ingraziarsi il mondo dei dotti secolari. Ha preferito la verità affermando che la gente di mondo, più o meno, se n’infischia della fede cristiana. Nietzsche gli ha dato notizia della morte di Dio e loro hanno preso a guardarsi l’ombelico. Nell’ombelico hanno visto il tramonto del mondo borghese – cristiano, il trionfo della scienza e della tecnica, l’elogio dell’individuo fino a convincersi che “non c’è più bisogno di Dio, di pensare a Lui e di ritornare a Lui”. Crollati i grandi sistemi storici, s’è però innalzato un potente totalitarismo della cultura che ha fatto di tutto per convincere la gente che non esista nulla di separato e di intoccabile. L’intoccabilità della chiesa di un tempo non si può ripristinare: per fortuna o purtroppo. Ma l’immunità culturale di cui gode oggi il pensiero dominante nutre la pretesa di segregare il fatto cristiano fino ad anestetizzarne il potere d’incidere nello spazio pubblico. E’ questa la zona in cui il cristiano si trova a dover ballare coi lupi, perchè se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo: la sua missione in mezzo all’umanità è missione di amicizia, di incoraggiamento, di promozione, di elevazione dell’umano.
L’11 settembre 2001 è finita la festa a New York. L’11 marzo 2002 è finita la festa in Europa. Oggi esplode la minaccia nuclerare dell’Iran di Ahmadinejad. Dopo la sensazione di un’eterna sicurezza, viviamo il ritorno della paura. Se prima di quelle due date tristemente storiche ciò che frenava il divertimento doveva sparire ora, se non altro, s’avverte nostalgia di uomini e donne che dispongano di una serie di valori attorno ai quali costruire un consenso sociale e rimettere in circolo nel mondo la speranza. Minacciata e messa al muro, la Chiesa apprende da Cristo la strategia vincente: imparare l’obbedienza dalle cose che patisce. Pagando il dazio di un passato fatto anche di ombre cupe, scopre di ridursi sempre più nella grande piazza della modernità. Forse un’occasione unica per l’uomo di fede che, distanziandosi dai luoghi comuni dei profeti di sciagura, accetti il confronto con lo spirito del tempo e sia attento a cogliere in ogni uomo e in ogni situazione i segni positivi di risurrezione. Finora il cristianesimo ha corso il rischio di vivere su di un’ambiguità: essere cristiani senza diventarlo, praticanti senza un cammino di fede, quasi turisti distratti saliti su un treno del quale s’ignorava la provenienza e, forse, la responsabilità ultima. Oggi la coincidenza tra fede e cultura – società è scomparsa: la situazione di minoranza è l’opportunità per testimoniare una fede vissuta in libertà e amore. Non per caso o necessità.
Dei discorsi, delle parole, delle elucubrazioni il mondo è appesantito: però quando avverte d’essere in presenza di un testimone sa ancora fermarsi ed ascoltare. L’uomo di fede tiene qualcosa di autorevole (non autoritario) da dire all’uomo che incontra nella misura in cui lascia che a parlare sia Cristo. Oggi, anche nella Chiesa, si dicono molte parole, si stendono molti documenti. Ma se vorremmo conoscere il cristianesimo, forse, non dovremmo leggere troppi commenti o parafrasi. E neppure badare ai cattivi esempi che purtroppo diamo noi cristiani e preti. La direzione del Vangelo rimane la base eterna della fede.
Perchè quando la festa finisce ci si ricorderà solo di coloro che hanno trasmesso all’uomo l’arte della speranza. Che altro non è se non il cognome della Risurrezione.

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