Lo immagina scalzo il prete papa Francesco. Scalzo alla maniera di Abebe Bikila, l’etiope che vinse l’oro nella maratona di Roma ’60. Quello che, scalzo al traguardo, sferrò una strategia da condottiero: «Corro scalzo per sentire meglio cosa mi sussurra la terra». Scalzo come Mosè, il pastore-primo al quale Dio chiese di cavarsi i sandali: la terra che stava per calpestare era divina. Scalzo, dunque povero: la povertà è condizione-seconda dello stare scalzi. E’ il prete di Francesco, «come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere». Piedi ben piantati per terra, ustionati pure quelli: «Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un devoto, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco». Scalzo, povero, nudo: evviva la miseria?
Attenzione: a Francesco calza a pennello il detto latino nomen omen (“nel nome c’è un presagio”). Il nome riporta ad Assisi, paese di Madonna povertà: il viaggio dalle perfezioni visibili a quelle invisibili. La terra nella quale il figlio di Pietro di Bernardone divenne santo. Con un felice sospetto, giusto in calce ad una vita povera, lieta: sarebbe rimasto povero, nel senso evangelico, anche se fosse vissuto in una reggia. La sua povertà-prima non fu di natura economica, bensì d’orgoglio: l’economia fu il secondo-tempo, quando rimise nel giusto rapporto il suo io e il suo Dio. Francesco fu contemporaneo dei catari, quelli che vivevano una povertà radicale: peccato, però, che si pensassero i puri, i perfetti, che ostentassero la povertà. Poveri-orgogliosi, dunque non scalzi. Il santo di Assisi scelse madonna-povertà, i catari scelsero il pauperismo: il primo si mostrò uomo coi piedi per terra – «non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano» sottolinea il papa -, i secondi non accettarono mai i limiti imposti dall’essere uomini: sognavano di diventare dèi. Perfetta letizia – spiegò un giorno Francesco all’amico Leone – è tornare a casa sotto la pioggia e non vedersi aperta la porta dai frati che lui stesso ha fondato. Letizia è appartenersi perchè appartenuti, appartenenti a Lui: il necessario per vivere.
Povertà, dunque, è spogliarsi, camminare nudi, scalzi sotto il cielo. Wilhem Ropke scrisse che «il Vangelo non è socialista». Parafrasandolo potremmo dire che il Vangelo non è pauperista. Non è vero che al Dio-Bambino il ricco fosse odioso, anche se dirà che è più difficile al ricco di salvarsi che al cammello di incunearsi nella cruna di un ago. Eppure quel Dio-Bambino è lo stesso che ripugna la ricchezza, ma solo la ricchezza di chi, differente dai Magi, non sa alzarsi di notte e barattare l’orgoglio di una vita con l’ingenuità di un viaggio. Da grande quel Bambino s’innamorerà di Zaccheo, sebbene costui doni solo la metà della sua ricchezza: Cristo fece-leva sulla ricchezza spirituale di quell’omuncolo, non tanto sul patrimonio materiale. Da morto, scelse di stare nel sepolcro nuovo (una sciccheria sulla roccia) ch’era di Giuseppe d’Arimatea, uomo ricco, persona buona e giusta. Povero, nelle prospettive evangeliche, non è dunque colui che non tiene soldi: troppo facile essere-poveri quando non si hanno soldi. Povertà è possedere immensità e non lasciarsi possedere: «Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore» (Sal 62,11).
E’ una strana faccenda quella delle parole di Francesco: le si ama, ma si cerca in tutti i modi di ridimensionarle, fin quasi alla banalità. Si provano i brividi per le vette alle quali additano, ma si tenta d’abbassarle per ridurne la fatica che chiedono. Sembra quasi che ci siano grossi problemi d’udito: si ama sentirle – fino a farle diventare materia dolcificante – ma non s’accetta poi di ascoltarle. Di darci una forma che sia anche un contenuto. Poi Francesco cita don Hélder Camara, e tutto sembra più chiaro: «Quando il tuo battello comincerà a mettere radici nell’immobilità del molo, prendi il largo». La povertà come condizione di leggerezza, anche pastorale. Di rischio e fantasia, di libertà: qui casca l’asino. Il Papa rimane solo e si torna a parlare di povertà confondendola col pauperismo.
(da Il Sussidiario, 18 maggio 2016)