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“Chi siete?” domandò stupefatto.
“Siamo delle rose”, dissero le rose.
“Ah!” fece il piccolo principe.
E si sentì molto triste. Il suo fiore gli aveva raccontato che era il solo della sua specie in tutto l’universo. Ed ecco che ce n’erano cinquemila, tutte uguali, in un solo giardino.
 
Anno scolastico nuovo. Nuova scuola.
Nuovo giardino di rose.
Quando varco per la prima volta il cancello di un plesso che non conosco mi sento un po’ come il Piccolo Principe. In comune con lui, anche se solo per qualche giorno, c’è un roseto. Si presenta sotto forma di elenco. Anzi, di svariati elenchi, suddivisi per classi e sezioni, i nomi in scrupoloso ordine alfabetico. Sembrano uguali a mille altri nomi, un po’ come le rose di quel giardino lontano, tutte uguali tra loro, nessuna che in apparenza significhi più delle altre.
Diversamente dal bimbo dai capelli color oro, tuttavia, in quei fiori non vedo per fortuna una mancanza di cui rattristarmi, ma una splendida opportunità da accogliere come un dono.
Tra l’inizio e la fine dell’anno scolastico c’è di mezzo un infinito, quantificabile in sorrisi, abbracci, disegni dai colori sgargianti e caramelle gommose alla fragola e limone.
Stamani, al suono dell’ultima campanella, il mio giardino era ancora là, anche se tremendamente e chiassosamente festante perché era l’ultimo giorno di scuola. Era là, ma non più lo stesso di quando ho iniziato il cammino. Nessuna di quelle rose è ancora uguale ad un’altra, nessuno di quei nomi, letti per la prima volta mesi fa, ora è sostituibile con un altro.
Altro.
Aggettivo o pronome che ha la caratteristica di indefinito. Non possiede quantità né qualità. È come la rosa qualunque, che non sembra valere più delle sue compagne. Altro può essere il nostro vicino di casa, il commesso del supermercato, l’impiegata all’ufficio postale… altro è chi spesso vediamo senza guardare.
Ma quando questo altro lo si conosce e lo si chiama per nome, lo si vede in viso, se ne ode il suono della risata cristallina, si fa un pezzo di strada insieme a lui, l’alterità allora scompare per fare spazio ad un’unicità da cui non è più possibile tornare indietro. E la banale rosa può tramutarsi nella propria rosa.
Fin qui, tutto tranquillo. Riflessioni comuni di una comune insegnante precaria, nulla di nuovo sotto il sole, direte voi.
C’è stato un tempo non troppo lontano in cui anche il divino si ammantava delle medesime caratteristiche dell’Altro, aggettivo indefinito. Non un volto che si potesse riconoscere tra mille, non una voce ma una teofania che poteva essere nube di fuoco o mormorio di vento leggero, non un nome ma un tetragramma così sacro da non poter essere pronunciato. Una presenza invisibile, capace comunque di entrare nella storia degli uomini e di scuoterla sin dalle fondamenta. Fin quando i tempi non furono maturi e quel divino, così incredibilmente altro dall’uomo, divenne invece volto, nome, voce che chiama dalla riva di un lago, passo che sale le pendici di un monte roccioso portando sulle spalle una croce. Dalla trascendenza all’unicità, un’acrobazia non scontata e decisamente fuori dal comune, tanto che chi ebbe la fortuna di incontrarlo e di riconoscerlo si trovò ad avere la vita cambiata per sempre.
La cosa bella è che questa unicità è sempre stata a doppio senso. Non sottintesa, non letta tra le righe, non campata per aria, ma affermata e scritta nero su bianco, affinché nessun essere umano, in ogni tempo e luogo, si sentisse una banalissima rosa in un altrettanto banale giardino di milioni di rose.
“Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo.” (Geremia 1,5)
È la sconfitta dell’anonimato che annulla e rende uguali a tutti gli altri, che proclama nessuno di importante, che rende tutti sostituibili con tutti.
È invece la proclamazione di un’unicità di cui Dio per primo sceglie di farsi garante e sceglie anch’egli di sottoporsi ad essa, una condivisione che sembra avere dell’assurdo e che è destinata a rimanere incompresa se non la si sottopone alla logica dell’amore.
Forse suonerò un po’ stucchevolmente poetica, forse è tutta colpa della manciata di caramelle gommose alla fragola e limone, forse è l’euforia da ultimo giorno di scuola.
Il Piccolo Principe per comprendere l’importanza della sua rosa ebbe bisogno di capire l’addomesticare ed il valore dell’amicizia. Per quel Dio, invece, che da altro si fece uomo l’unicità di ogni sua creatura è un dono che ci regala a prescindere.
Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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