Per comprendere il peccato, è necessario andare “ad Adamo ed Eva”: ecco perché la prima lettura della liturgia di questa III Domenica dopo Pentecoste abbiamo la proposta del brano della Genesi in cui il serpente, simbolo del Maligno, tenta l’uomo e la donna (Genesi 3, 1-20).
«Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto»
È interessante notare come, con il peccato, s’insinui, nel cuore dell’uomo, la paura. Del resto, è inevitabile constatare come, molto spesso, il peccato s’affratelli alla paura. Quante volte è la paura a frenare i nostri slanci d’amore? Paura d’essere diversi, d’essere giudicati, additati. Di fronte alla cattiva abitudine che dilaga (“tanto,che male c’e? Fanno tutti così!”), spesso, è la paura d’andare controcorrente che ci impedisce di seguire condotte più sane, giuste, corrette, che, tante volte, prima ancora che la Bibbia, dovrebbe essere il semplice buon senso a suggerirci.
Dio passeggiava con l’uomo, nel giardino dell’Eden. La sua voce era familiare, come una carezza, non spaventosa. La nudità non costituiva un problema, perché, quando il cuore è puro, un corpo nudo non rappresenta altro che la perfezione del Creatore realizzata nella creatura: non è altro che un ulteriore motivo per rendere lode a Dio per la fantasia, la creatività, la bontà e la saggezza del suo atto creativo.
Il peccato originale è un atto di superbia, dice qualcuno. Vero, forse però, prima ancora della superbia, si tratta di una mancanza. Mancanza di fede. Qualcuno cerca giustificazione nella curiosità: a fronte del divieto e di una proposta allettante per infrangerlo, l’uomo si lascia ingannare dalla donna e la donna dal serpente. Tuttavia, a monte di tutto ciò, troviamo la mancanza di fede. Perché hanno preferito pensare che Dio li ingannasse e non che il comando ricevuto fosse dettato dall’amore di chi voleva il loro bene.
In fondo, si chiama originale perché è all’origine di ogni altro peccato. Perché non è solo di Adamo ed Eva, ma si trova nel cuore di ogni essere umano. Assume le forme più svariate, che, spesso, prendono i colori dell’accidia, dell’egoismo, della vanità, della superbia, dell’avarizia, dell’invidia, dell’ira.
Eppure, nel profondo, il peccato primo che precede tutti gli altri sta lì, come il serpente, accovacciato sotto l’albero, in attesa di sorprendere il prossimo sprovveduto: è la tentazione di credere che il bene “non valga la pena”, che Dio ci stia fregando, con tutti i suoi comandamenti e i suoi divieti ci complica la vita, mentre il mondo se lo aggiudicano i più furbi, quelli che delle regole se ne fregano e pensano ai propri comodi.
In questa prima lettura è racchiusa un’opportunità. Quella di cambiare idea sul peccato. Passare dalla congettura che il peccato sia trasgredire le leggi di Dio al comprendere che il peccato nasce nel cuore prima ancora d’infrangere qualunque comandamento o precetto, quando diamo tutto per scontato, quando pensiamo che l’amore di Dio sia meritabile e confondiamo la nostra risposta al Suo amore con l’avere una reputazione accettabile e politicamente corretta.
C’è di più, molto di più. Essere cristiano non può e non deve essere sinonimi di “brave persone”. Di brave persone è pieno il mondo. I buoni sentimenti possono nascere nel cuore di ogni uomo, insieme, però, con i sentimenti meno nobili.
Rinunciare al peccato, come professiamo durante la liturgia battesimale, significare costellare la nostra vita quotidiana di tanti sì: piccoli e grandi, più o meno impegnativi, ma mai banali né scontati. Dire sì a Dio significa renderci conto del nostro essere figli: un figlio si fida del Padre, anche quando non ne comprende le richieste, persino quando non le approva, le contesta, magari, ma alla fine si affida a quel bene che, a volte, è possibile soltanto intravvedere, perché solo Dio ha tra le mani il ricamo dalla parte del diritto e noi, da sotto, talvolta vediamo l’ammasso di fili che costituiscono il rovescio e non comprendiamo come sia possibile trarre armonia da quel guazzabuglio. Noi non lo sappiamo, Dio sì.
Ecco perché siamo chiamati a scegliere il bene, anche e soprattutto quando è scomodo, impegnativo, controproducente rispetto al nostro benessere materiale e sociale.
C’è un di più che, senza la fede, inevitabilmente, sfugge.
«Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Romani 5,20)
Di fronte al dilagare del Male, l’uomo potrebbe sentirsi solo, smarrito, impotente di fronte al suo vigore. È proprio qui che risulta più evidente l’intervento paterno di Dio. Dio ci ha donato Suo Figlio: non ci ha chiesto nulla in cambio, ce l’ha dato prima, lasciandoci liberi di rispondere anche no alla Sua chiamata. L’amore di Dio è gratuito, per cui, quando amiamo nella gratuità ci rendiamo simili a Dio: ecco perché, in gergo popolare, si dice che “un’opera buona copre una gran quantità di peccati”. Si tratta di imitare Dio, dopo averlo rinnegato con il peccato.
Rif: letture festive ambrosiane, nella III Domenica dopo Pentecoste, anno C – Gen 3,1-20; Sal 129; Rm 5,18-21; Mt 1,20b-24b
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