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«I poveri sanno odore, portano la stessa camicia per settimane, certi giorni elemosinano anche un sorriso. Io, invece, sono venuto da voi perchè con voi ho un grosso debito da saldare: in una stagione difficilissima della mia vita di prete, mi avete aiutato a salvare la fede». Loro, il popolo del carcere “Due Palazzi”, gli rispondono con lo sguardo stupito, gli occhi lucidi, la voce commossa: uomini di assurde battaglie, di misteriosi ascolti. Sono la prima parrocchia che don Claudio va a trovare: un’intera domenica passata accanto a loro per dire «sono venuto qui per chiamarti a nome di Gesù», proprio come i discepoli al cieco del Vangelo. Don Claudio parla un linguaggio semplice, colorato della strada e nostalgico del Cielo, racconta la bellezza nascosta dentro la miseria più nera, parla di Dio narrando storie di uomini perduti e ritrovati. Loro, pecore sperdute, riconoscono la voce del pastore. Lui ha l’umiltà di chiedere scusa, per quando, come i discepoli, «abbiamo pensato che Gesù non fosse interessato ad incontrare il cieco». Ad incontrare loro: è la schiettezza di chi sa dove andare.
I poveri hanno nome e cognome, «infastidiscono, puzzano di strada eppure la storia di uno di loro è la storia di tutti noi». Lui li sveste con le parole, loro lo riconoscono come di casa. Ricordano tutto della loro storia, soprattutto le ferite date, quelle ricevute. Eppure, questa volta, hanno netta la percezione di uno che li ama per come sono: non li vuole aggiustare, li ama così, rotti. Come papa Francesco, il “loro” papa. Come Gesù, del resto. A pregare con lui c’è una platea affollatissima, quella della domenica: nessun vestito per l’occasione, qui ogni domenica è così. Assieme a loro, tutta la buona-gente che, discreta, entra ogni giorno per dire loro «Coraggio, alzati!». A tutti racconta la storia di Etty Hillesum, morta per mano nazista: «Non saranno certo circostanze esteriori a togliermi la libertà di amare, sperare, sognare». Parla di lei, ma loro intuiscono che parla a loro: certe voci la strada le sintonizza come un direttore d’orchestra.
Poi amministra la Cresima e la prima comunione a Francesco, da oltre vent’anni dentro le patrie galere. Gli parla, parlando a tutti: «Dio si affaccia tante volte nella vita delle persone. Fate come il cieco: date un senso alla vostra libertà». Quando l’abbraccia, non è circostanza: è credere che Dio ti viene a stanare nei luoghi più impensati, nelle situazioni più assurde, sul ciglio della disperazione. Lui, don Claudio, sa di essere un vescovo “di papa Francesco”: non lo dice, glielo si legge nei gesti. Non lo nasconde: «Pregate per me, perchè la scelta sbagliata di un vescovo può diventare un peso faticoso per tantissima gente». Ammette di aver paura di sbagliare, racconta le sue fatiche d’uomo, non nasconde nulla della sua miseria. Gioca pulito in una terra di giochi sporchi: era l’unico modo per entrare in quei cuori. Per poi lasciare un dono come traccia del suo passaggio. E’ la sua beatitudine preferita, quella insegnatagli da Lorenzo, uno dei suoi poveracci: «Beati i barboni, non hanno né illusioni né maschere: sono lo specchio di tutti noi». Finita la messa, se lo sono abbracciati quasi il tempo di un’altra messa: da queste parti un tocco d’umanità è l’anticipo saporito della misericordia di Dio.

(da Il Mattino di Padova, 26 ottobre 2015)

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Segnalo qui sotto il mio saluto dato al Vescovo, a nome della nostra piccola comunità cristiana. Una dichiarazione d’intenti, una confidenza sincera, un pensiero non formale. Andava detto così, per tante ragioni.

Il mio ben-arrivato, don Claudio, te lo voglio tradurre in un piccolo racconto/incontro capitato qui dentro. Tre giorni fa, tra le sbarre dei cancelli, ho fatto una confidenza ad uno di questi miei amici: “Domenica viene il vescovo a trovarci”. Conoscendo la sua sensibilità, pensavo facesse dei salti di gioia. Nulla di tutto ciò è accaduto, nessuna esagerazione scomposta. Solo una risposta, ma ne ho anche avanzato da quant’era densa: “Era ovvio che venisse da noi, lui è come papa Francesco”. Il mio saluto, oggi, è cucirti addosso, a nome di tutti loro, quell’ovvio: non significa “era scontato”, significa piuttosto “con Francesco sarà sempre così, la misericordia non è slogan”. Allora ben arrivati tra noi tutti e due, te e Francesco.
Questa è l’unica parrocchia che non è nemmeno parrocchia: come se a noi importasse qualcosa! E’ uno dei pochi posti, però, dove il cristianesimo non corre il rischio di diventare una circostanza: qui Gesù di Nazareth è un fatto serio, per qualcuno di loro è diventata addirittura la ragione di rinascita, di speranza: penso a Giovanni, Gaetano, Davide, Agostino, per presentarti solo gli ultimi fratelli che, dopo il cammino diocesano del catecumenato, in questi anni sono diventati cristiani. Quelli che tu oggi vedi qui – e tantissimi altri che vedrai la settimana prossima quando tornerai per stare un giorno intero con noi – sono uomini feriti, uomini che hanno ferito, sono ferite che parlano. Raccontano di guerre, di assalti, di rapine, di notti insonni: dicono di solitudine, d’insoddisfazione, di voglia di cose-belle. Dicono anche di qualche grosso errore della giustizia. So che tu i poveri li conosci: l’ho letto nei tuoi occhi lucidi l’altro giorno, quando mi hai chiamato a casa tua. Hai dormito con loro negli ostelli, il loro odore è per te un profumo, sai di chi parli quando parli di loro. E questo, per noi che viviamo qui dentro, è motivo di speranza, quella vera.
Ci sono loro, e possono sembrare sempre troppi. Con loro, però, c’è tutto un altro mondo meraviglioso chevive qui dentro: il mondo di fratelli-e-sorelle che entrano per rimettere mano a queste strade piene di buche, malandate, strade slabbrate. Uomini-e-donne che, a me personalmente, insegnano una cosa formidabile: l’uomo non è solo una scommessa che si può giocare, si può addirittura vincere. Non esiste spettacolo più bello di quello di un uomo che si rialza e torna a camminare con le sue gambe. Sono uomini e donne che hanno nomi-e-cognomi: te li voglio presentare con le mani in pasta, singolarmente, il 4 novembre prossimo. Lascia solo che ti presenti i miei compagni di viaggio diocesani, visto che siamo qui a nome tuo: don MarcoAntonio e i suoi due confratelli diaconi, Chiara e il gruppo di catechiesti/e, Stefano e Alex i nostri due seminaristi, gli amici splendidi del Cammino neocatecumenale, suor Elena e le suore elisabettine. Eppoi tutto quel gruppo sempre più numeroso di amici (oggi trovi i Carismatici) che ogni domenica entra con noi per intonare la speranza. Per fare le prove di canto della Risurrezione. E’ la nostra parrocchia scassatissima di periferia: di quelle che fanno impazzire un Papa che, qui dentro, è rimasta l’unica voce ascoltata, voce che percuote e consola.
Dietro a loro, dietro a noi, c’è Dio che veglia, che sorveglia, che fa la veglia su ciascuno. Ci sono anche loro, gli uomini della Polizia Penitenziaria. E con loro il Direttore, che qui è un po’ il capofamiglia. Sono persone che, smesse le divise da lavoro, vivono l’identica storia di tutti: il sudore e la gioia, la preoccupazione e l’ansia, la passione e la stanchezza, l’amore e la lontananza da casa. Gente che, chi più chi meno come tutti, cerca di guadagnarsi il pane con onestà e professionalità: è grazie a tanti di loro se la nostra parrocchia sta mettendo radici solide qui dentro. E, con loro, permetti che citi solamente tre realtà, sapendo bene di lasciarne fuori un’infinità. Però sono le tre dietro le quali se ne stanno nascoste le speranze e l’amore di quasi trecento detenuti: l’Associazione Piccoli Passi, i manovali del volontariato, senza i quali qui dentro si rimarrebbe nudi in tutti i sensi; la Cooperativa Giotto (legata alla fraternità di Comunione e Liberazione) che, attraverso un lavoro d’altissima professionalità, tenta di far ritrovare la dignità; Ristretti Orizzonti e Altracittà, un esercito schierato in battaglia che, attraverso la riflessione e il pensiero, ricorda alla giustizia di non diventare mai tortura, ma di restare occasione di umanizzazione per le persone detenute.
Li vedrai tutti all’opera, professori compresi: le loro gesta parleranno per loro.
L’unico fatto strano che non mi convince, don Claudio, riguarda altri da loro: per come intendo io la periferia, ho ricevuto troppe telefonate di persone che oggi avrebbero voluto essere qui con te, a celebrare la messa. Vedi, amico mio, il problema era proprio questo: volevano stare con te, non con loro. Di questa gente, don Claudio, non abbiamo assolutamente bisogno: questo mondo non è una passerella, è un ospedale-da-campo, è un incrocio di sofferenze. Noi abbiamo urgente bisogno di gente feriale, anonima, nascosta. Di preti come don Leopoldo che apre la porta della sua comunità di Campodarsego ad un detenuto in fase terminale, di preti come gli educatori del Seminario Minore che, tempo qualche giorno, accoglieranno come un amico uno questi nostri amici, di preti come don Michele, don Giuseppe, don Renato, don Gianandrea, padre Tiziano, don Gianni, padre Enzo, don Lucio che entrano silenziosi, quasi invisibili, per essere presenza di Cristo qui in mezzo a noi. Tu mi sei maestro: i poveri si servono, non ci si serve dei poveri. Certe telefonate irritano e basta: sono quelle di questi giorni. Altre, invece, consolano: dopo un suicidio, dopo la cacciata di un Direttore, dopo una sommossa, dopo tante cose. Peccato che, in quei giorni, non arrivino telefonate, quasi mai.
Da oggi, però, abbiamo un amico in più: sei tu, e questo a noi basta. Diventerai sopratutto l’amico di Francesco, forse la tua prima cresima da Vescovo: da oltre vent’anni ha la residenza nelle patrie galere. Giusto o sbagliato che sia, oggi per lui è festa grande: per lui e per tutta la sua comunità dell’Alta Sicurezza che sta vivendo mesi difficili, tormentati, tormentosi: a-s-s-u-r-d-i. La tua presenza, oggi, sa di buono. Sono uomini che vivono il dramma dell’ergastolo ostativo, del fine-pena-mai, del tunnel lunghissimo della luce spenta: dacci tu una parola di speranza, quella che a volte è così difficile d’andare a trovare in binari morti.
Ti presento gli ultimi, quelli che mi stanno più a cuore di tutti, queli senza i quali qui dentro la fede diventa un’inutile farsa, una pericolosissima dannazione: sono le vittime di qualche loro gesto folle, è la gente che fuori da queste mura sta piangendo per delle responsabilità nostre. In ogni messa c’è il ricordo per tutte loro: non si può tornare uomini con la schiena dritta cancellando il passato, lo si può diventare solo riscattando il passato con un presente d’onore. Con un futuro diverso. Noi ci crediamo.
Il loro “era ovvio, è come papa Francesco” è il grazie più vero per essere venuto da noi, assieme a don Matteo: qui un piatto di pasta per voi non solo c’è sempre, ma per noi è uno di quei sogni che ci fanno sentire vivi. Qui c’è Cristo: laddove ha regnato il disordine e l’assurdo, solo l’amore può ancora qualcosa. Una chiesa della tenerezza è l’unica che, da queste parti, ha ragione d’esistere. Perchè nessuno è mai perduto nella vita se c’è qualcuno pronto a tendergli una mano.
Noi ci proviamo ogni giorno, tu non negarcela mai la mano.

don Marco Pozza
parroco della parrocchia “Due Palazzi” di Padova

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