In materia di fede, sopravvivo per informazioni-seconde. Faccia a faccia, Dio non l’ho visto: il poco che conosco, mi è giunto per parte di madre e padre. La mia fede è una somma di risposte-senza-chiamata: io manco Lo chiamo, Lui mi procura indigestione di risposte. È poca-roba: briciole, stracci, canovacci di futuro. Quel poco che mi basta per credergli. Appartenergli. Credo, dunque: non per averlo visto, però. Gli credo perché percepisco d’essere stato veduto: non ricordo dove, però è accaduto. Con Natanaele spartisco l’urto d’essermi accorto tardi che Lui già si era accorto di me: «Come mi conosci? (…) Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico» (Gv 1,48).
Occhio di padre, sguardo-custodia.
Il Padre-nostro ha il volto di mia nonna. Dev’essere stato in cucina, o forse mentre sciacquava i panni nell’acqua dell’Astico. Terza ipotesi: seduti sui banchi della mia chiesa di Calvene, sotto il Crocifisso, appena uscito dall’asilo. Quattro anni, o giù di lì: m’insegnò a mettere in fila-indiana quelle sette frasi che, tempo al tempo, sarebbero diventate la sintesi di tutto quello che avrei potuto osare di chiedere a Dio. Dopo il Pater, nessun’altra orazione è più sorta che non fosse già contenuta in questa. Il Padre, poi la Madre: l’Ave-Maria. A casa nostra non ci furono mai conflitti d’interesse: prima Lui o prima la Madre, era chiaro che Dio aveva un diritto-di-prelazione nel cuore. Fu la nonna a decidere le posizioni per tutti: prima Dio, poi Maria. A Dio, tramite Maria: che lei ci portava a pregare sul monte Berico, la cima-mariana di chi nasce nella terra vicentina. Ora-pro-nobis.
Dio era Padre. Per anni volli capire come mai: senza un perché era difficile per me amarlo, a occhi chiusi. M’impantanai. Così, un giorno, rovesciai la partita: provai ad amarlo, per vedere se era più facile capirlo. M’accorsi poi, senza rendermi conto, che la teologia mi stava seducendo. Non capire-per-amare, ma amare-per-capire. La volontà di Dio, oltretutto. Quella che mostravano così: sia fatta la tua volontà. Mi tornava alla mente una frase dell’Abbé Pierre: «Solo una persona che ha perso la testa può dire cose simili. È aprire le porte ad un vento che scompiglia. Offrire un pranzo al Dio affamato». Il mio Dio era proprio così: scapigliato, affamato, spalancato. Pareva insulto al buon-senso. A casa dissero di sì: “E’ insulto al buon senso”. Chiusero i discorsi: “Nessuno, però, ti obbliga a seguire Cristo”. Parole-sode: a me sufficienti per andargli dietro, nella sequela.
A furia di recitarlo, mi annoiai d’abitudine: «L’abitudine è una morte a rate», scriveva Péguy. Bastian-contrario per natura, c’era un solo modo per ritornare a innamorarmi del Pater: per-negazione. Per-assurdo: imbattermi in qualcuno che non lo recitasse. E, non recitandolo, mi facesse provare nostalgia di quello che recitavo a-vanvera. È nato così il programma Padre-nostro: mendicare ragioni laiche per ritrovare ragioni-di-fede. E recitarlo. I miei compagni di viaggio sono tutta gente che non-crede: quei pochi che dicono di credere, assicurano che è fede-difficile, racimoli di credenza. Conversando con loro, Dio l’abbiamo lasciato a casa sua. Abbiamo vangato parole laiche: padre, nome, regno, volontà, pane, debiti, tentazione, male. Da casa sua, però, ogni tanto faceva capolino: arginare la fonte è affare temerario. Il guadagno? Scoprire che pregare il Padre-nostro è molto difficile: «Non è possibile recitarlo una sola volta, concentrando su ogni parola la pienezza dell’attenzione, senza che un mutamento, forse infinitesimale ma reale, si produca nell’anima» (S. Weil). Recitarne una parola a testa, questa è anche la Chiesa che mi arde in petto: una storia di voci poggiate l’una all’altra.
L’ultimo è diventato primo. Rimasto l’ultimo: viaggiatore, staziona in ultima fila a proteggere le spalle: “Sono bellissimi questi discorsi. Disturbo?” Dio ha il volto di Francesco, «peccatore perdonato». Il Papa. Dice parole buone come il pane, ha un sorriso-maiuscolo: io, minuscolo, in fronte a lui mi sento maiuscolo. Mi invita a dargli del tu. Mentre manovro quel pronome, non avverto villaneria: con papà (Francesco pure lui) uso da sempre il tu, pronome-vicinanza. Tu-per-tu: il suo sguardo è d’agguato. L’ultimo, mentre recitiamo il Padre-nostro, è una lama di fioretto: avverto che quest’uomo ha incontrato Cristo di persona. Colgo l’occasione: lo abbraccio a modo-mio. E, nascosto in quell’abbraccio, confondo l’accento: “Grazie, papà Francesco”. Poi penso che quell’errore, un accento in più, è la più nobile delle verità: ero tornato a chiamare Dio papà.
Mi sono leccato le labbra. L’ho riabbracciato.
(da La Difesa del Popolo, 21 ottobre 2017)