Per professione faccio il pescatore di uomini. Più che professione, direi per vocazione. Fossi sincero dovrei dire che lo faccio per una (pro)vocazione di Dio: “Vedete che, nonostante Marco, mando avanti la storia?” sembra dire all’uomo che lo guarda impietrito. Una vocazione, una (pro)vocazione, ma c’è anche però una (pre)vocazione: il fatto d’esistere, d’essere nato. Da quando ho iniziato anni fa ad appassionarmi alle tematiche del Meeting di Rimini, ogni volta mi stupisco di quanto una frase possa accendere nel cuore dell’uomo. Possa far accadere qualcosa a chi l’ascolta. Mi vien da pensare che usiamo uno specchio di vetro per guardare il nostro viso, ma usiamo le opere d’arte (le poesie) per guardarci l’anima. Sono ancor lì che mi scervello sulla mancanza di Luzi, l’eredità di Goethe, il sublime di Heschel che quest’anno appare, con un bagliore insolito, quest’altro pensiero di Kierkegaard: «Bisogna avere di nuovo il coraggio di dire io», senza il quale la verità, ogni verità, diventa astratta. L’io, dunque, come forza d’urto della storia. Un elogio del narcisismo più spinto, la voglia di mettersi al di sopra di tutti?
Ho pensato alla frase di Kierkegaard proprio in questi giorni in cui celebravo la messa. Quante messe ho celebrato, finora! Eppure, in ogni occasione, sta nascosta una percentuale di stupore: la differenza è sempre tra coloro che fanno le cose a caso e coloro che fan caso alle cose. Per questo, forse, il filosofo diceva che i valori (anche l’amore, dunque anche la fede, è un valore) restano astratti fino a quando uno non ha il coraggio di dire io. Allo stesso modo le opere nascono e le parole diventano dei fatti quando uno ha il coraggio di dire io. L’eucaristia, appunto. Ricordate quella terribile frase che il sacerdote pronuncia durante la consacrazione: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi»? Questa frase, se ci pensate, è il coraggio di dire io da parte di Cristo: “Io ci sono, ci sono per te, ci sono con te, mi comprometto mettendomi nelle tue mani!” E noi – fortuna che lo diciamo, spesso, da distratti -, diciamo Amen. Una delle parole più azzardate, è come dire “Ci sto, eccomi!” Questo pane, poi, trova la sua possibilità (parola magica, non necessità!) in un altro io, quello di Maria: trovatasi incinta, la sua vita è stata capovolta, riempita, realizzata. Dicendo “io”, ha fatto diventare storia quello che prima era solo una speranza, anche se era la più grande speranza: Gesù. Questo, se ci pensate, è quello che capita ogni volta che diciamo Amen: ci sto. Guardate che è molto più semplice mettere un like (mi piace) di dire amen. Cliccare “mi piace” dice una distanza di sicurezza, quasi fossimo degli spettatori: un applauso e via. Dire amen, invece, è dire che io ci sto, è compromettente, è vivere da protagonista. Dire mi piace procura una emozione, dire ci sto apre il cammino, compromette, accende la vita. Per dire ci sto occorre fare caso alle cose, non basta fare le cose a caso: a come mi sento, se me la sento. Non so se vi piaccia questa cosa, ma ve lo dico: anche a messa come nella vita, si possono fare le cose a caso o si può fare caso alle cose con il coraggio di dire io, ci sto.
Di Cristo m’incuriosisce un aspetto, e questo è l’aspetto che lo differenzia di più da me, sempre a rischio d’essere Narciso: che Cristo non vuole ammiratori, ma discepoli. Non sa che farsene di chi lo loda, ma cerca gente che lo segua. Ho provato ad immaginarmi l’inizio del cristianesimo: mi vien quasi da ridere. Somiglia, Gesù, a quel bambino che parte da casa sua con il pallone sotto il braccio e, suonando di casa in casa, quando arriva nella piazzetta del paese ha messo su una squadra per giocare. Quel bambino non cerca i grandi numeri, cerca quelli necessari per poter giocare. Non vi sembra che a Gennesaret, quella volta, sia accaduta l’identica cosa? Da Nazareth Gesù parte con il suo sogno in tasca e, di porta in porta, mette su una squadra che gli vada dietro. Sulla riva del lago, a Pietro, quell’Uomo deve aver detto più o meno questo: “Vècio mio, non stare a raschiare questo lago con le tue reti per tutta la vita, vuoi buttarti nell’avventura del Regno di Dio? Guarda che non sarà una vita facile, ma io ti sosterrò. Ti interessa?” Quegli uomini, trovando il coraggio di dire io, “ci sto”, troveranno come loro credito la visione di cose prodigiose: «Non abbiamo mai visto nulla di simile» (Mc 2,1-12).
Li invita singolarmente, avete fatto caso? Qualcuno pensa che dove c’è la folla lì ci sia anche la verità, tanto che la verità (si pensa) sente il bisogno d’aver con sé una folla, a disposizione. Cristo, invece, che fa? Accetta d’essere messo in croce poiché, anche se si è rivolto a tutti, non ha mai voluto avere a che fare con la folla, non ha mai voluto avere nessun aiuto dalla folla: non volle fondare partiti, non ammise votazioni, ma volle esser ciò ch’egli era, ovvero la Verità che si rapporta con il singolo uomo. Guardate che è molto più difficile convincere un singolo piuttosto che una massa. Per conquistare la folla non ci vuole gran arte: un po’ di talento, una buona dose di falsità, un po’ di conoscenza delle passioni umane. Ma a nessun testimone della verità è lecito compromettersi con la folla: il testimone della (V)erità sa di doversi impegnare possibilmente con tutti, ma sempre uno alla volta, di parlare con ciascuno in particolare, per le strade, per i vicoli, non per educare la folla ma perchè qualche singolo lasci la folla e torni a casa per (ri)diventare singolo. Senti cosa scrive circa gli imbonitori della folla: «Quando a qualcuno di questi si presenta un singolo uomo, a costui che gliene importa? Si tratta di troppo poco, con orgoglio lo manda via: dovrebbero essere almeno cento! Quando invece sono mille, egli si profonde in inchini davanti alla folla, inchini e salamelecchi: che falsità! No, è quando c’è un singolo uomo che si deve esprimere la verità dell’essere-uomo e, se forse si tratta ch’egli è povero e misero, allora qui c’è il dovere d’invitarlo nella stanza migliore e di usare con lui le espressioni più amabili e amichevoli di cui si dispone: questa è la verità». Quasi come succede nei nostri comizi, adunanze religiose, meeting ecclesiali.
Quasi, ho detto! Recuperare il singolo, per far diventare cristiani i cristiani. Prendete uno di quegli esempi che non teme paragoni: Cristo. Secondo voi è mai nato o mai nascerà uno che abbia la sfrontatezza di sputare in faccia a Dio? Secondo me no, ma il Vangelo di attesta che quando un singolo accetta di diventare folla, accade: «Lo schernivano: ”Salve, Re dei Giudei”. E, sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo» (Mt 27,29-30). La folla è la falsità del singolo: non c’è nessuno che disprezzi tanto l’uomo quanto chi sta a capo della folla.