Un appuntamento (letteralmente) al buio, senza occhi indiscreti addosso e attorno: la sala era quasi completamente vuota. Pochissimi articoli, tra l’altro, ne hanno pubblicizzato l’uscita. Vale-assai, dunque, mi sono detto. A riempire la sala, però, bastava lui, il Pirata: vent’anni, o quasi, non sono ancora bastati (e non ne basteranno altrettanti) per cancellarne il ricordo dalla faccia della terra. Basta, questo, e avanza: ci sono articoli e imprese che, domattina, sono già carta straccia. Pantani, invece, è attualissimo e più vivo che mai, un Omero dello sport. Quasi un controsenso: è più vivo da morto che quand’era vivo quaggiù, a grattare le salite, limare le discese, sfidare la gravità poggiato dietro la sella del suo destriero. Il migliore. Marco Pantani. Titolo più azzeccato non ci poteva essere per questo bel lavoro di Paolo Santolini (prodotto da Okta Film con Rai Cinema, in collaborazione con Fondazione Marco Pantani): perchè Marco non era un gregario (questo lo sanno tutti). Non era nemmeno un campione: campione è colui che sa fare cose che in pochi sanno fare. Marco era di più, moltissimo, e più del campione c’è il fuoriclasse: colui che sa fare cose che nessun altro è capace di fare. Il migliore, dunque: basta questo per spiegare il livore, l’astio, la concorrenza sleale e le mattanze. La mattanza matta di Campiglio. La natura, quando fa venire al mondo i migliori, a qualunque genere appartengano, lascia loro in allegato, cucito addosso, il prezzo pattuito da pagare: “Attenzione, fragilissimo”. E, ancor più di fragile, invidiatissimo. Dunque passibile delle peggiori nefandezze.
Non amo i film, non sono un critico cinematografico, non m’importa di esserlo. Per questo sono andato al cinema a gustarmi Il migliore: perchè non è un film. E’ molto più di un film: è la storia di un ragazzo che, venuto dal mare, ha stretto alleanza con le vette-vertiginose per raccontare al mondo la bellezza di nascere dal basso, quando si arriva in alto. Oropa, e quella fantasmagorica rimonta che ancora oggi fa impallidire i muscoli e strizzare i cervelli rabbiosi, rimarrà l’emblema di cosa sia capace l’uomo quando gli arde nel petto il sacro fuoco del talento. Del talento cristallino, non di quello (ri)costruito in laboratorio. E’, soprattutto, il grande racconto corale di una città, la sua Cesenatico: la vita del porto, le sue musiche, lo stridìo cupo e irriverente dei gabbiani. La pesca, la movida, la notte. Le piadine. Gli amici di sempre, che rimangono il filo conduttore di una narrazione che a te, telespettatore, ti fa sentire seduto dentro casa di Marco, al chiosco di mamma Tonina, a pescare pesci sul molo. Ad inseguire gli amori la notte, senza per questo smarrire l’amore gigante del giorno: la bicicletta, la salita, l’epopea della sfida. Il talento da custodire gelosamente. Un racconto che non lesina la nebbia, anzi: la rende metafora di un’avventura sportivo-esistenziale a tratti melanconica, a tratti sublime. I silenzi della mamma, l’intercalare dialettale della sua gente, i piatti all’osteria. Il respiro di Marco: “Si sente solo il tuo respiro” sta ancora scritto in un tornante del Monte Carpegna, novello Calvario di una via crucis ancora in corso. Piccoli dettagli, disarmanti e imperdibili nella loro semplicità. Il grande Giotto di Bondone, quando dipinse la Cappella degli Scrovegni, ci ha tenuto a dipingere il cane con la zampina alzata, il bacio tra i due vecchi Anna e Gioacchino, le rughe attorno agli occhi dei suoi personaggi. Il cartiglio nelle mani di Anna, il ricamo sulla tovaglia di Cana. La cometa di Halley. Cesenatico, come fu per Giotto, nel racconto non ha distinzioni o gerarchie: tutto parla del migliore, tutto è cresciuto con lui, tutti l’han cresciuto. Non-solo-dettagli: in essi c’è ancora lui. Che batte forte il cuore.
Poi lo schiaffo, non il pugno: “Il pugno fa male, ma lo schiaffo ti umilia” dice Andrea Agostini, l’amico di Marco. I pugni erano quelli che lui dava, a colpi di muscoli, agli avversari: per sfidarli in battaglia, per portarli nel suo agone, per mostrare di che pasta è fatto il talento. Lo schiaffo di Campiglio, invece, è stato un’umiliazione, il gesto più vile, la morte della passione. Cesenatico, da quel giorno, ha iniziato a celebrare in diretta le esequie di suo figlio, di uno dei suoi figli più amati: l’ha capito dopo, come dopo si capiscono tutte le cose che accadono prima. Purtroppo, per fortuna. Quando quel giorno di febbraio l’abbiamo portato al cimitero, era di pomeriggio, ho immortalato delle lacrime di donna nella chiesetta del porto. Lacrime di una madre che, nel tempo, si sono fatte grandi, ad un prezzo inenarrabile: sono diventate alfabeto, denuncia, grammatica, dolore, allenamento alla speranza. Marco, finchè vivrà Tonina, non morirà mai. Non morirà fino a quando, sulla terra, gli sopravviverà qualcuno che ha sentito il cuore battere forte vedendolo danzare su quel destriero che pareva domabile solo da lui. Vecchio lupo di mare.
Seduto in poltrona, come nel corteo funebre quel giorno, anche stavolta ho detto grazie al Migliore. Per avermi mostrato quant’è gigantesco l’uomo, fin quanto in alto si possa arrivare a colpi di talento. Anche quanto, lassù in alto, faccia tempestosamente freddo. E ci si senta tremendamente soli.