Se messo a confronto con tutto quello che sarebbe seguito, il lavoro di Creatore fu forse il più semplice. Tramutare la parola in esistenza, chiamare-alla-vita e alla fine dell’opera rimanere lì a fissarla con sincera ammirazione. “Vide che era cosa buona”, non una, non due, bensì sette volte, il numero della perfezione divina: un pieno d’amore che non lasciava angoli vuoti, un atto di genuino trasporto, uno sguardo d’innamorato che sorride con occhi e cuore.
Da Creatore a Padre degli uomini, il passo era breve ed ovvio. Non un’aggiunta, ma la medesima essenza. Quel compito non poteva stare senza l’altro, quel ben-di-Dio d’amore trepidava per riversarsi sull’umanità intera.
L’infinito fatto persona accettò di buon grado di essere racchiuso in concetti, appellativi, soprannomi. Fu oceano che acconsente a lasciarsi trasportare da una conchiglia, fu la possibilità nell’assurdità, fu il fuori-misura che non teme di essere misurato con altrui metro. Le lingue degli uomini si scioglievano in canti e preghiere, facevano ipotesi sul suo aspetto, su dove dimorasse o cosa preferisse. Si lasciò frantumare in decine di elementi naturali, di stati d’animo, di idee più o meno nobili. L’essenza finita dell’uomo aveva bisogno di limiti, di luoghi sicuri, di certezze calcolabili a cui non sfuggiva nemmeno l’elemento divino.
Per trovare un cuore di uomo non richiuso da gabbie fissò lo sguardo al deserto, proprio là dove l’occhio si perde a fissare lunghe distese di sabbia, rocce e cielo stellato.
Il lungo cammino iniziò con Abramo. Un atto di smisurata fede mosse i primi passi ed un atto di smisurata fede lanciò la promessa, ancorandola al numero delle stelle. Si incontrarono a metà, sulle ali di un desiderio di paternità che ardeva d’essere compiuto. Ma se ad uno fu risparmiato il dolore del sacrificio, l’altro lo avrebbe visto consumarsi tutto, appeso al legno di una croce.
Giacobbe forse lo prese per un mercante, trattando con lui come si fa al crocevia delle strade carovaniere: ti onoro come Dio dei miei padri, se mi concedi salvezza. Una sfrontatezza senza pari, arricchita da un’astuzia non comune. Stette al gioco, perché chi ha l’ardire di lottare con tutto se stesso per chiedere di essere amato e benedetto merita anche un nome tutto nuovo.
La pazienza fu il suo forte.
Tanta. Per gli uomini pure troppa.
Gli diedero dello smemorato e lo scrissero pure nero su bianco. “Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe.” (Esodo 2, 24)
Lo scambiarono per un guerriero, affibbiandogli armi ed elmetto e mettendolo a combattere contro i soldati del faraone: fu colonna di fuoco, nube impenetrabile e mare che s’apre per far uscire un popolo dalla schiavitù.
Propose Dieci Parole di libertà e di pace, per far avvicinare terra e cielo, un regalo inaudito. Erano ali, ma erano anche mattoncini per costruire un mondo più bello e senza timore del prossimo. Riuscirono a tramutarli in zavorra, aggiungendovi regole e precetti, catene che avviluppano il più elementare tra i sentimenti umani, la compassione. La parabola del Buon Samaritano aveva radici lontane.
“Poiché non conta ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza [secondo gli occhi], mentre il Signore guarda il cuore [secondo il cuore].”
Samuele scruta i figli di Iesse alla ricerca del re d’Israele. Aveva chiesto una conferma – “E’ forse davanti al Signore il suo consacrato?” – in risposta riceve una presentazione divina. Se l’uomo si lascia fermare alle apparenze, dall’aspetto fisico alla materialità, Dio non ha questo limite ed anzi scruta il cuore e con il cuore.
Una doverosa precisazione: il Signore ci osserva amandoci, né più né meno.
Ed allora si può guardare a ritroso tutta la storia, dagli inizi fino a lì, in quella città che è casa del pane. Da Abele, fragile come un soffio, al piccolo Giuseppe venduto dai fratelli, da Davide, il minore tra i figli di Iesse, a tutti coloro che nel mondo degli uomini non ricoprono le prime posizioni. In quella presentazione sta tutta la cura di Dio per i più deboli, per coloro che vengono scartati, abbandonati, rigettati dai loro simili.
“E Gesù, fissatolo lo amò.” (Marco 10, 21)
Il Messia vede e guarda, osserva ed ama.
Suo è quello sguardo di Dio che aveva invitato Samuele a non fermarsi alle apparenze, suo è quell’amore che si fa carezza d’occhi e che accetta di correre ogni rischio, anche di essere rifiutato.
Si barcamena così, il mestiere di Dio, teso nell’eroico sforzo di rivelarsi e al tempo stesso di adattarsi ai limiti umani. Dall’Antico al Nuovo Testamento, egli si presenta come amore e come guida, come amico che rinfranca o rimprovera, genitore che loda o disapprova con decisione.
Un percorso da mal di mare. Ma allora vuoi che sia solo un caso che i primi chiamati dal Cristo siano proprio pescatori avvezzi alle onde?
Dovrà convincerli – e convincerci – che quel suo essere Amore che si lascia sospendere tra terra e cielo non è diverso dal suo essere guerriero che combatte contro il faraone d’Egitto, così come quel “mormorio di vento leggero” che abbracciò lo sfiduciato Elia era il medesimo vento di pace che soffiò tra i rami di un sicomoro, giocando con la ricca veste di un Zaccheo dato da tutti per irrimediabilmente perduto.