soldiLa curva bianconera, forte dell’ennesima delusione, s’arrabbia e impreca: “Mercenari non ne vogliamo”. Destinazione Fabio Cannavaro, reo di slealtà sportiva. Ma basta un breve giro di stadi per vedere come questo termine sia di proprietà comune del popolo ultras che lo usa indistintamente per Zlatan Ibrahimovic, Bobo Vieri, Luca Toni, Alessandro Nesta, Zinedine Zidane, Ronaldo. Gente che per soldi ha tradito l’appartenenza ad una bandiera. Del Piero, Maldini e Totti strapperanno altre accuse, ma non sentiranno i fischi riservati al mercenario: loro hanno sposato una bandiera fino a diventare la bandiera stessa. Di una squadra, di un popolo, di una tifoseria. Perchè se nasci in Egitto sei musulmano o, in casi limite, cristiano copto. Nasci a Bergamo: sei dell’Atalanta oppure, per eresia paterna, del Milan. La fede sportiva ha una sfumatura estremista: non ammette conversione, solo proselitismo. Si può smettere di praticare, la domenica abbandonare lo stadio per il
cinema, diventare agnostici: ma non è ammesso il cambio di curva. Pena il rimanere mercenario nel cuore del tifoso. Che invertirà l’applauso con il fischio.
Pure il Vangelo, pellicola dai mille fotogrammi, conosce questa figura: “Il mercenario – che non è pastore – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge”. Il motivo è presto detto: “Perchè è un mercenario e non gli importa delle pecore” (Gv 10,11-18). Ma nemmeno le pecore ascoltano la sua voce. Il mercenario nel Vangelo non tiene gravissime colpe: semplicemente non si schiera, non si compromette, non rischia nessun gesto per salvare il suo piccolo gregge: di tifosi, di fedeli, di estimatori. E, cammin facendo, diventa un mestierante nel suo lavoro: mestierante della scuola, della politica, della Chiesa, della casa, dello sport. Si perdona tutto ad un atleta, anche agli atleti di Cristo: un rigore sbagliato, un’affermazione fuori posto, un atteggiamento improvvisato. Ma non si perdona il tradimento e l’abbandono: fedeli fino alla morte al popolo scelto. Arrivato a Barbiana in una notte tempestosa, il priore Lorenzo Milani al sorgere dell’alba seguente firmò un gesto d’amore verso quegli analfabeti che gli erano stati affidati: andò al comune di Vicchio e si comprò la tomba nel piccolo cimitero di montagna. Per non apparire uno dei tanti mercenari, ma giurare loro amore in eterno. Da quel giorno iniziò la celebrazione di un amore che le punizioni riuscirono solo a ingigantire.
Il mercenario non appassiona, al massimo strappa qualche apprezzamento unito ai fischi. Non appassiona il maestro che ripete senza ascoltare il cuore dell’alunno, il prete che parla di Dio senza leggere i desideri feriti della gente, lo sportivo che vince a braccia alzate facendo uso di doping, il politico che s’abbevera al potere dimenticando la vita della gente. Ammaestrano ma non convincono, parlano ma non accendono il cuore, vincono ma non appassionano. Nelle loro parole si legge tutto: perfezione, competenza, conoscenza, stile, impeccabilità, ortodossia, padronanza di linguaggio. Manca ciò che fa di un mercenario un innamorato: la prossimità al cuore. Quell’esserci anche quando la squadra retrocede, quando l’alunno fallisce il compito, nell’attimo in cui il giovane s’allontana dall’oratorio, nella tristezza di un padre che perde il posto di lavoro.
La liturgia dell’ultras snocciola a memoria il suo credo per salutare i traditori che calpestano il campo lasciato: “mercenari non ne vogliamo”. Anche Cristo raccomandò alle sue pecore di unirsi ai medesimi fischi: per non accettare i fiaschi della delusione. Lui che della Fedeltà fece una bandiera: a forma di Croce.

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