Il loro linguaggio è una poesia naturale: c’è pochissimo ragionamento, poca analisi, moltissime immagini, simboli e intuizioni. Per la maggior parte sono autodidatti, spontanei e istintivi ma non per questo sprovveduti. Il fatto è che loro il mondo lo vedono e lo interpretano da dietro le sbarre di un carcere, forti solamente della scuola del loro talento: le immagini e le parole sono gli unici due strumenti che rimangono loro quando i cancelli si chiudono e – com’è gergo tra di loro – sul foglio sta scritto “fine pena mai”. Per la cronaca sono ergastolani, per il mondo sono delinquenti (anche se di molti di loro si dovrebbe, per onor di cronaca, dire che sono ex-delinquenti), per loro stessi sono rimasti bambini che ricordano i genitori, vecchi braccianti che fanno memoria delle terre della loro infanzia, uomini ancora abituati a parlarti nel loro dialetto, coi loro accenti, forti delle loro radici. Non chiedono di evadere dal carcere: chiedono la possibilità di pagare il giusto nella maniera giusta. Severino Boezio – nella sua opera La consolazione della filosofia – ci racconta quanto la filosofia fu la sua salvezza nelle carceri romane. Dietro le sbarre ogni giorno un ergastolano racconta il medesimo segreto per non impazzire: come la filosofia liberava il pensiero, così la poesia libera l’anima dalla disperazione.
Il silenzio composto e pesante del carcere – laddove la gente è abituata ai tempi lunghi dell’attesa – racconta di gente che ha avuto problemi con la giustizia, di gente che ha ammazzato e violentato, sequestrato e profanato. Eppure prima di ogni crimine viene sempre la persona: che è stata bambina, che ha sofferto e sognato, sbagliato e perseverato. Etichettare l’uomo per i crimini che ha compiuto è dimenticare che dietro il volto di ognuno di loro abita una storia dalla calligrafia difficile da decifrare: storie di uomini e donne che hanno toccato il fondo della disperazione e hanno firmato la scommessa di non soccombere alla disperazione ma di tentare la difficile risalita della scarpata. E il miracolo si compie: nella ristrettezza di una cella, nel sovraffollamento di un carcere, nella disumanità di un luogo in cui è persino facile dimenticarsi l’umanità ecco fiorire capolavori inaspettati: analfabeti che diventano poeti, assassini trasformati in pittori, ergastolani capaci di pennellare la vita con colori forti. Certo: in carcere c’è anche chi s’addormenta e tace fino a fare della sua esistenza dietro le sbarre una morte pagata a rate. Eppure per dieci di cosiffatta essenza ne spicca uno che nel massimo della restrizione fa sbocciare il massimo della creatività. Perché il carcere è l’esempio più eloquente della natura umana, capace dei più inimmaginabili crimini come anche delle più inaspettate resurrezioni.
Dietro le sbarre l’articolo 21 (quello che concede la semilibertà) è l’augurio più bello perché significa riassaporare la libertà a piccoli sorsi: libertà vigilata, eppure mai così bella perché prima perduta. Poi li contempli all’opera, segregati nel grigiore creativo di una cella e pensi davvero che là dentro vive gente “ristretta” nel fisico ma libera e indipendente nel pensiero. E forse provi un pizzico di nostalgia nello scoprire quant’è complicato il mistero dell’uomo. Che fuori dal cercare s’autoconvince d’essere libero – quando invece tanti segnali lo fanno sentire in “libertà vigilata” da altri – mentre in carcere trova l’occasione per sentirsi prigioniero nel fisico ma libero e poeta nell’anima e nel pensiero.
Le sbarre dividono il mondo in liberi e detenuti. Eppure il più delle volte resta da dimostrare se la libertà autentica sia quella di chi sta dentro o di chi sta fuori.