Anche il pulpito, al pari di tanti campanili, sta diventando muto: parla, sbraita, raccomanda ma non riesce più ad accendere e far divampare l’animo del fedele accovacciato sul banco in penultima fila. S’è accorta la Cei per bocca del suo Segretario, ne fa le spese il fedele discepolo che la domenica s’imbatte sempre più spesso in qualcosa d’improvvisato, esautorato, usurato dall’uso appena dopo la freschezza di un Vangelo da capogiro. Laddove le parole sono cercate, meditate, messe in piedi dopo lunghi tempi in ginocchio il cristianesimo passa la sua meravigliosa capacità di liberare le passioni, le emozioni, il suo credo festoso e innamorato. Oggi, però, sempre più spesso dal pulpito scendono parole stanche e immagini infiacchite che, ai meno sprovveduti, raccontano di una incapacità totale di calarsi e bruciare nel cuore dell’uomo.
La parola della predicazione ha smarrito il suo potere performativo: quello della Parola che, mentre s’aggancia all’anima, inizia a ricrearla. Quando la Parola di Dio raggiunge il centro dell’uomo, mette in piedi la sua forza dirompente: gli fa percepire il tutto nel frammento togliendo all’uomo il senso di solitudine. E’ la potenza di parole come fiori, notte, stella e giorno, radice e fonte, vento e sorriso, rosa, sangue e terra, fanciullo, fumo, parola, bacio, fulmine, respiro, quiete. Parole tacciate di eresia, piegate accuratamente in quattro nel magazzino dell’oratorio perché pericolose, inedite, difficili da controllare. Ma una predicazione che metta a morte la freschezza delle parole trasforma la chiesa in un caposaldo del tradizionalismo, una specie di club felice di annoverare tra gli iscritti coloro che accettano di parlare un linguaggio in codice. Pagando il prezzo di una tristezza che nasce quando il seguace di Cristo si sente incapace di accendere il cuore del fratello che non crede. Ma se la parola non raggiunge il cuore e non inizia a riscaldarlo, la sua forza non tocca quella zona dell’immaginazione che, invece, avrebbe proprio lo scopo di accendere.
E con le parole, le immagini. Che senso ha oggi per un adolescente figlio di Facebook e di una virtualità da second life l’immagine del Sacro Cuore appesa nelle stalle di montagna? O il velo nero sul capo delle anziane catechiste in parrocchia? Adamo ed Eva, la mela, l’arca e Noè. L’acqua, il vino, l’olio. Il ramo d’ulivo, il fuoco della Pentecoste, l’estrema unzione? Gesù era davvero come lo raccontano oggi a catechismo: tranquillo, pacifico, buono, dolce, remissivo, con il collo inclinato sulla spalla destra, gli occhi celesti languidamente rivolti verso il cielo? Nell’Europa odierna l’universo simbolico cristiano ha smarrito la sua capacità di presa. Arrancando pesantemente nel tentativo di un aggiornamento più annunciato che attestato, perde la sfida d’essere capace di trafiggere l’anima fino a rendere inquieti, travagliati, trepidanti, angosciati, torturati coloro che s’imbattono nelle ortodosse liturgie di Santa Romana Chiesa. Ma se le immagini non riescono ad avvolgere il bisogno di sorpresa e saziarlo con la loro capacità di apertura, l’immaginazione rimane assopita. Fino a far diventare la fede un discorso folkloristico. Nell’epoca indisposta all’ascolto delle grandi narrazioni, se fallisce lo strumento simbolico e verbale l’uomo cerca il riempimento di quel vuoto chiedendo immagini ad altri campi semantici.
Parole pericolose e immagini evocative chiede oggi la Parola dell’Altissimo per calarsi nel cuore della storia: parole e immagini partorite in ginocchio per potersi incuneare feconde tra le pieghe e le piaghe della storia.
E non ridurre l’Eternità ad un gossip da sacrestia.