Un grande giocatore di tiro alla fune: così ci piace ricordare Benedetto XVI alla vigilia dell’ultimo Angelus della sua avventura di Papa. Poi c’è da giurarci che quest’uomo rimarrà veramente nascosto al mondo per tutti i giorni a venire: nascosto al mondo ma vicino al cuore del mondo, laddove l’eremita che c’è in lui ha adocchiato il vero punto d’appoggio che Archimede cercava per poter sollevare il mondo. Nel tiro alla fune sono previsti due gruppi di giocatori, non necessariamente pari di numero: vince chi alla fine si porta a casa la fune. Fino a qualche giorno fa pensavamo che davvero fosse questo il senso del gioco: il gesto inatteso e umile di Benedetto XVI – oltre che riscrivere i lineamenti del pontificato e aprire scorci inimmaginabili – cambia anche la fisionomia del gioco alla fune. Anche nella Chiesa c’è una fune: da una parte il Papa – che volentieri ha tentato alleanza per rimettere ordine e in ordine la sua amatissima sposa, la Chiesa – dall’altra il mondo della chiesa stessa, popolato di porpora e di bisso, che tutto ha cercato per complicarne il suo lavoro. Da una parte c’era un giocatore tremendamente solo, dall’altra una moltitudine di persone. Per anni la corda è stata tirata: in certi passaggi la vittoria sembrava prossima al Papa-teologo, in altri la cronaca sembrava dannarlo alla sconfitta. Per anni gli occhi amabili di Papa Ratzinger hanno dovuto reggere la fatica di questo peso. Poi l’altro giorno la mossa che ha riscritto il gioco stesso del tiro alla fune: improvvisamente il Papa molla la corda e succede l’impensabile: chi sta dalla parte dei molti si trova con la corda in mano ma il contraccolpo li manda a terra. Chi è rimasto senza corda, il Papa, misteriosamente sta in piedi e non crolla. Per una volta il tiro alla fune ha mostrato come la storia sia davvero strana: a volte è un gioco che pensi di conoscere e invece spalanca scenari di senso del tutto inediti.
Dietro le sbarre delle galere quest’uomo è apparso seducente non tanto per la platealità dei gesti o l’infondatezza delle promesse, ma per l’umile appartenenza al genere umano della gente comune. Il suo saper riconoscere un limite, il saper dare un nome e un perchè al senso di stanchezza fisica e di spossatezza dell’animo, il tirarsi in disparte perchè nessuno è condannato al governo ma tutti siamo invitati al servizio è l’esempio di una campagna di promozione umana capace di riaccendere il cuore delle persone. Le flotte di pellegrini dirette a Roma, le migliaia di persone incolonnate verso la Basilica di san Pietro, i milioni di uomini e donne assiepati attorno all’eco delle parole di questo Papa stanno mostrando di cosa è capace il testamento cristiano quand’è puro e al servizio dell’uomo: è ancora in grado di rimettere in piedi esistenze disaffezionate e stanche per additare una nuova rotta da intraprendere. Come negli antichi pellegrinaggi verso i santuari che hanno scritto pagine di storia della spiritualità mondiale.
Ha mollato improvvisamente la fune: e in quell’istante è rinato improvviso quel senso di nostalgia di Dio e delle sue cose feriali che sembrava assopito nel cuore di una fetta di mondo che viveva senza più avvertirne la sua assenza. Rimane oggi quella sua domanda semplicissima, fanciullesca e quasi ordinaria: “che cosa dice Dio alla mia storia?” Quel Dio più simile ad un forestiero che irrompe improvviso e sorprende che ad un amico di vecchia data. Lo stesso Dio che, nascosto nelle ossa stanche di un vecchio Papa, ha raccontato che nel gioco del tiro alla fune stavolta a rimanere in piedi è stato il giocatore che ha avuto il coraggio di rischiare la sconfitta. D’altronde la Scrittura Sacra è l’unico libro scritto da un popolo perdente. Perdente ma ancora in piedi e instancabilmente in cammino.
(da Il Mattino di Padova, 24 febbraio 2013)