E’ la terza industria in Italia dopo Eni e Fiat, la prima nel Veneto. Il fatturato che dichiara è da capogiro: 80 miliardi di euro annui, con una media di 1072 euro giocati a testa nell’arco dei dodici mesi. Un business che equivale a 16 volte quello annuo di Las Vegas e che da solo basterebbe per mettere a tacere un’intera manovra finanziaria. Nella sola città di Padova sei residenti su mille dichiarano di essere vittima del gioco d’azzardo: sono imprenditori e adolescenti, pensionati e precari, casalinghe e minorenni. Nell’epoca della crisi del lavoro, degli imprenditori vittime di usura e di racket e in grande deficit di futuro, l’abbaglio è quello di convincersi che le monete crescano davvero sugli alberi. Così – mentre negli anni passati le grandi gesta reggevano su verbi come “lavorare-guadagnare-reinvestire” – oggi i verbi sono drasticamente cambiati: grattare-cliccare-puntare. Al bar, nei ristoranti, nei tabacchini; mangiando, bevendo, sorseggiando uno spritz. Sotto gli occhi compiaciuti di uno Stato biscazziere che guarda all’incremento del suo fatturato con le braccia incrociate senz’accorgersi che con un clic si smantellano famiglie, si diventa vittime di patologie inguaribili, si perde a volte l’ultimo frammento di dignità rimasta.
Nel dopoguerra fu l’intraprendenza e la voglia di riscatto ad animare le grandi manovre dell’Italia e del Veneto: ci si affidava alle proprie forze per contrastare e vincere una paura del futuro che divenne ben presto la forza motrice di un sogno economico che si stagliava all’orizzonte. Oggi che il carattere dell’uomo sembra essere in preda ad un tentativo di anestetizzazione di massa, è rimasto il gioco come tentativo di ribaltare in un sol colpo di fortuna una situazione fastidiosa, preoccupante e per certi versi inesorabile. “Evolve chi si prende una giusta dose di rischio” ammonisce la pubblicità: mai essa osa parlare della certezza di una perdita, dell’amarezza di uno sfascio, dell’insensatezza di un colpo di fortuna che mangi i risparmi di una vita intera. Nel mondo dell’infanzia il gioco è una forma di grandissima educazione: giocando i bambini sperimentano quella leggerezza che non è per forza dissipazione, quella spensieratezza che non è mancanza di riflessione. Nel gioco essi fanno proprio un modo di vivere che li avvicina ad uno stato di serenità che li fa sentire protagonisti di un qualcosa di arricchente per loro. La qual cosa non è la medesima del gioco d’azzardo, laddove il giocatore diventa vittima di un sistema che lentamente lo assorbe fino a fare di lui un dipendente. Nella dipendenza dal gioco è in ballo forse la differenza tra paura e angoscia: la paura è riferita ad un pericolo preciso, l’angoscia è invece un malessere diffuso, acuto, pesante e indeterminato. In uno stato di paura l’uomo trova la forza di chiedere aiuto, quand’è vittima dell’angoscia l’uomo perde la fiducia che ci sia qualcuno in grado di aiutarlo o semplicemente di motivarlo. Il suicidio stesso – punto di non ritorno di un’angoscia divenuta insopportabile – è il segno ultimo di una morte già avvenuta nella mente, nell’anima e nel cuore.
Scrutare un bambino tutt’intento nei suoi giochi è un’esperienza d’insopportabile bellezza: attraverso il gioco scopre la serietà e la preziosità della sua vita. Contemplare un adulto chino sui videopoker, sulle slot-machine e sui gratta e vinci è di un’inquietudine stanca e disarmante. Perché dietro quei clic potrebbe nascondersi il motivo di famiglie ridotte al lastrico, di affetti sacrificati alla fortuna, di semplici uomini e donne in preda ad un senso di angoscia che li porta a giocarsi il tutto per tutto nel tentativo di trovare una vita sistemata da un colpo di fortuna. E dimentichi che in caso d’angoscia e di solitudine esistenziale val più un abbraccio sincero di un anonimo tentativo di fortuna elaborato accanto al bancone di un bar.