Entrando in casa di fretta, l’avrà pure calpestato, qualche volta, quell’uomo cencioso che «stava alla sua porta». Che a quell’uomo ricco non gli importasse niente di Lazzaro è troppo facile a credersi. Semplicemente aveva imparato a fare a meno del povero nell’organizzarsi le giornate: “Un po’ di menefreghismo in tazza grande, per me”, avrà chiesto come colazione agli inservienti. Dentro casa, pensò bene che valesse il detto pancia mia fatti capanna, eternamente in bilico tra “mi dà fastidio tutto” e il più classico “non me ne frega niente di niente”. La genesi di tutta quella sua ricchezza non è materia che interessi al Vangelo: ci sono ricchi-sfondati che seguiranno il Maestro fin sotto la croce, porgendogli profumi sepolcrali e una pietra sulla quale poggiare il capo. Ciò che al Vangelo preme è quell’uso ingiusto che fa credere al ricco d’essere re del suo destino: una disgrazia, quando non ci riguarda personalmente, è sempre lontana. «Su una parete della nostra scuola c’è scritto in grande I CARE – disse un giorno don Lorenzo Milani parlando della scuola di Barbiana – E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “Me ne importa, mi sta a cuore”. E’ il contrario esatto del motto fascista “me ne frego”». Un giorno, poi, la storia bussa alla porta e scopri ch’è sempre la stessa: non te ne frega niente ma intanto precipiti.
Il cencioso – si chiama Lazzaro (“Dio aiuta”) – era povero in canna. L’unica ricchezza era il suo desiderio: «Era bramoso di sfamarsi». Avverte tutti i profumi di dentro-casa: d’ostriche e champagne, di Chanel e Dior, di antipasti e di caffè. D’indifferenza, il peso morto della storia, e di mancati pianti: «Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, – ha scritto il Papa – siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza». La situazione di Lazzaro è nota a tutti gli amici del ricco: è cencioso, puzzolente, leggermente molesto. L’anima, però, gli è nota solamente a lui: desiderosa, in silenzio, un’anima in attesa. Una di quelle che, dal bordo della strada, manda segnali luminosi da dentro le sue ferite: “Vi volevo avvertire che la strategia dell’indifferenza funziona solo se il destinatario se ne accorge”. Se, comunque, non s’accorge, s’accorgeranno altri da lui.
S’accorge Dio, il desiderio ultimo del povero-Lazzaro: «Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo». Morì anche l’uomo ricco e gli fecero il funerale, lo seppellirono. Andò dritto a casa sua: «stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi, vide di lontano Abramo con Lazzaro accanto a lui». La storia è rovesciata, aveva ragione Anna che, pur sterile, s’aggrappò al desiderio per tenersi fedele a Dio: «L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore. I sazi sono andati a giornata per un pane, mentre gli affamati han cessato di faticare» (1Sam 2,4-5). Di andare, un giorno, a-giornata per un pane, lui che aveva pane in abbondanza, il ricco non l’avrebbe mai detto. D’essere un giorno sazio, cessando di faticare, Lazzaro lo immaginava desiderando. Ciò che accadde, perché capitò, rimase istruzione d’uso per salire in alto, scendere in basso: se l’indifferenza funziona solo se il destinatario s’accorge, per vedere la differenza occorre aspettare l’ultimo giorno, sempre ad un passo dal giungere.
“Ben ti sta, pancione!” gli avranno detto in tanti, sentendolo urlare le pene dell’inferno. Rese ancor più ardenti dal fatto di riuscire a vedere Lazzaro ad un tiro di sasso, tanto da chiedergli un passaggio per il Cielo. Impossibile oramai: «È stato fissato un grande abisso». Quanto basta perché il ricco s’accorga che il peccato non fu una questione di pancia, di tasca bensì di sguardi: pur cortese come tanti altri – «La cortesia è l’indifferenza organizzata» (P. Valery) – chiuse gli occhi per non accorgersi di Lazzaro. È l’infrazione che gli contesta il Cielo: non la ricchezza ma l’omissione di soccorso. Qui in terra è un reato penalmente perseguibile, lassù in Cielo sarà accorgersi di quello che si poteva fare, non si è fatto, e volerlo fare adesso. Senza poterlo più fare. Un inferno di frustrazione.
(da Il Sussidiario, 28 settembre 2019)
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”» (Luca 16,19-31).
(foto tratta da www.ilgiornale.it)