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Signore e signori, ecco a voi un test semplice: “dimmi come seguiresti Gesù e scopri che fedele sei”. Se vi va di partecipare, vi basta rispondere con sincerità, senza trucco e senza inganno, ai quesiti che seguiranno. Pronti?
“Sii per me rupe di difesa, baluardo inaccessibile, perché tu sei mio rifugio e mia fortezza.” (Sal 70,3)
Da uno a dieci, quanto ti trovi in accordo con questa frase?
Se hai risposto con un numero piuttosto alto, complimenti, puoi aspirare a far parte del fedele-tipo. Il tipo – “typos” in greco – nel suo significato originario non è un anonimo qualunque, bensì il modello, l’esempio da seguire, quello a cui tutti dovrebbero aspirare. Il fedele-tipo, ad esempio, è uno di quelli che proclama con coraggio “Ti seguirò ovunque tu vada.” (Lc 9,57). Tuttavia, attenzione, perché senza il giusto discernimento il fedele-tipo può tramutarsi nel suo contrario, ovvero nel fedele-koala: tenacemente aggrappato alla propria casa sicura proprio come fa il tenero marsupiale con il suo ramo di eucalipto.
Ciò che li distingue non è tanto lo slancio genuino verso la sequela di Gesù, quanto il coraggio di compierla fino in fondo, di percorrere un cammino che non è agevole, ma dissestato, colmo di difficoltà, di fratelli da prendere per mano, di calici amari da bere. Il primo fa del proprio considerare Dio come rifugio e salvezza un punto di partenza, la molla per un salto ancora più grande, il ponte che si protende verso i fratelli per amarli a più non posso. Il secondo, invece, si lascia mettere radici nel proprio angolino sicuro di fede spicciola, si àncora alla comodità, rifiutandosi di diventare seme che osa germogliare, rifiutando il rischio di confrontarsi con il mondo che lo circonda.
La sequela di Gesù non ti fa dormire tra due guanciali. Anzi, a volte non te ne dà nemmeno mezzo, perché la tua è la strada del pastore che va in cerca della pecora smarrita, del padre misericordioso in insonne attesa, della vergine vigile che aspetta gli sposi.
“Seguimi!” (Lc 9,59)
A seconda di come ti poni dinanzi a questo invito puoi entrare a far parte della schiera del fedele-tipo (ma non ti adagiare sugli allori, non è un distintivo da appendere sul bavero ma un atto d’amore che devi costruire mattoncino dopo mattoncino), oppure rientrare nella categoria del fedele-torno-subito.
Del primo gruppo, a dire il vero, se ne possono contare sulle dita delle mani: gli incontri con la Misericordia il più delle volte hanno avuto bisogno di tempo e di reiterati inviti; l’apostolo Matteo ebbe bisogno di sentirsi chiamare per ben tre volte e San Francesco d’Assisi, beh, sappiamo bene che ce ne volle di acqua sotto i ponti perché rispondesse positivamente. Tuttavia, una volta presa la loro decisione, non recalcitrarono più, non tornarono sui loro passi, ma percorsero la loro strada, fino alla fine.
Il fedele-torno-subito, invece, è quello che prima di mettersi in cammino vorrebbe chiudere tutte le questioni in sospeso – “lasciami andare a seppellire mio padre” – o colui che ha il desiderio di mettersi in cammino ma anziché fissare il volto avanti, guarda indietro – “lascia che io vada a salutare quelli della mia casa” –.
Per entrambi la questione è la stessa: se per abbracciare la Misericordia aspettiamo che nella nostra vita tutto sia a posto, sistemato, non ci muoveremo mai. Seguire Gesù non è come pianificare un viaggio organizzato, nel nostro percorso non avremmo mai il controllo di tutto quello che ci circonda. E per fortuna! Ci sono imprevisti che possono tramutarsi in meravigliosi trampolini di lancio o in insperate pause di riflessione.
Il fedele-torno-subito è più o meno come colui che vorrebbe veleggiare verso lidi lontani, con la mano salda al timone e l’àncora che si trascina pesante sul fondo del mare.
La Misericordia che ci aspetta – spesso con una pazienza invidiabile – non ci chiede di prendere commiato dai nostri affetti come essi fossero una zavorra di cui liberarci: è sufficiente che essi vengano portati dentro di noi – magari un giorno ci cammineranno fianco a fianco – proprio come un motore che ci dà la spinta per metterci in marcia.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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